Due giorni dopo aver sussurrato a Rocco che sarebbe stato al sicuro per sempre, ho sentito il cancello sbattere come un colpo di fucile nel silenzio delle colline.
Un’auto scura si è fermata nel cortile, e per un attimo ho capito tutto prima ancora di vedere chi scendeva. Rocco ha sollevato la testa lentamente, come se anche lui avesse riconosciuto il peso di quel momento.
Dario è uscito per primo, rigido nelle spalle, con quella stessa fretta negli occhi che aveva da ragazzo quando voleva “risolvere” qualcosa in cinque minuti.
Elena è scesa dopo, con le mani già bagnate di lacrime, e dietro di loro è apparso un uomo in giacca e cravatta, troppo pulito per la polvere di questo cortile. Sembrava fuori posto come un ombrello in cucina.
“Papà, dobbiamo parlare.”
“Lo so,” ho risposto, senza alzarmi dalla panca.
L’uomo in giacca ha fatto un mezzo sorriso professionale e ha allungato una mano. “Buongiorno, signor Renzo, io sono l’avvocato…”
“Qui non serve presentarsi,” l’ho interrotto, guardando le mie mani screpolate. “Qui serviva venire prima, quando Lucia era ancora viva e la casa era piena, non adesso che avete paura di perdere i muri.”
Dario si è irrigidito, come se gli avessi dato uno schiaffo. Elena ha tirato su col naso e ha guardato Rocco ai miei piedi, quasi come se fosse lui il colpevole. Rocco, invece, ha soltanto sospirato e ha appoggiato il muso sulla mia scarpa, come faceva sempre quando la voce degli umani diventava troppo.
“Non puoi farlo,” ha detto Dario, scandendo le parole come se le firmasse. “Non è normale. È… è una follia.”
“È l’unica cosa che ho fatto con calma negli ultimi anni,” ho risposto. “E non è una follia, è una scelta.”
L’avvocato ha schiarito la gola e ha iniziato a parlare di carte, di diritti, di contestazioni, con quella lingua che non ha odore né sapore, come acqua tiepida.
Io l’ho lasciato dire, perché a volte gli uomini hanno bisogno di sentire la propria voce per convincersi di essere importanti. Poi ho indicato la porta della cucina.
“Entrate,” ho detto. “Vi faccio un caffè. Qui, prima di urlare, si beve qualcosa.”
In cucina il profumo del caffè ha riempito lo spazio tra noi meglio di qualunque scusa. Elena si è seduta senza togliersi il cappotto, come se avesse paura di restare. Dario ha rimasto in piedi, a braccia incrociate, mentre l’avvocato guardava le piastrelle di cotto e l’umidità delle pareti come se fossero un difetto da valutare.
“Papà, noi ti vogliamo bene,” ha detto Elena, e quelle parole, così semplici, mi hanno fatto più male di un insulto. “Ma questa cosa ci distrugge. Perché ci fai questo?”
“Perché mi avete fatto questo per anni,” ho risposto piano. “Solo che voi non ve ne siete accorti.”
Dario ha sbattuto una mano sul tavolo. “Non è vero! Io lavoro, ho una famiglia, ho responsabilità!”
“E io cos’ero?” ho chiesto. “Un punto sulla mappa? Un posto dove venire a Ferragosto, fare due foto e poi scappare via?”
Elena ha abbassato lo sguardo, e ho visto che stava cercando dentro di sé una frase che aggiustasse tutto. Ma certe cose non si aggiustano con una frase, si aggiustano con la presenza, e la presenza non la compri in un pomeriggio. Rocco ha alzato la testa e ha guardato Elena, e lei, d’istinto, gli ha sfiorato il muso.
“È vecchio,” ha sussurrato.
“Lo so,” ho detto. “E anche io lo sono.”
L’avvocato ha provato a inserirsi ancora, parlando di “valutazioni mediche” e “capacità di intendere”, e lì ho sentito un calore salirmi in petto, non rabbia, ma qualcosa di più antico: dignità.
Ho posato la tazzina sul piattino con calma, come faceva Lucia quando voleva che tutti la ascoltassero senza alzare la voce. Poi ho guardato Dario e Elena uno per uno.
“Volete sapere se sono lucido?” ho detto. “Sono lucido abbastanza da ricordare chi c’era quando cadevo, e chi c’era solo dopo, quando non serviva più.”
“Papà, non…” ha iniziato Elena.
“Sì,” l’ho fermata. “Serve dirlo.”
Fuori, il vento ha cominciato a muovere i cipressi, e quell’odore di pioggia mi è entrato nel naso come un ricordo. Ho guardato la finestra, poi ho guardato Dario. “Due inverni fa mi sono rotto il femore. Il telefono era in cucina. Io ero là fuori, sul ghiaccio.” Ho indicato il cortile con un gesto breve. “Sapete chi ha chiamato aiuto?”
Dario ha deglutito, ma ha mantenuto la mascella dura. Elena ha stretto le mani fino a farsi diventare le nocche bianche. L’avvocato è rimasto immobile, finalmente senza parole.
“Rocco,” ho detto. “Rocco ha urlato per me, perché io non potevo. E voi dov’eravate? A fare la vita che dovevate fare, lo so. Ma la vita che dovevate fare vi ha resi assenti, e l’assenza è una cosa che lascia segni.”
Per un attimo ho creduto che Dario avrebbe esploso la sua rabbia, invece ha abbassato lo sguardo, come se avesse visto qualcosa di brutto sul pavimento. Elena ha pianto senza fare rumore, quel pianto che non vuole essere visto. Io non ho detto altro, perché quando la verità entra, fa già abbastanza rumore da sola.
Poi la pioggia è arrivata davvero, improvvisa e pesante, e ha cominciato a battere sul tetto come dita impazienti. Un tuono ha fatto tremare i vetri, e ho sentito Rocco irrigidirsi, perché i temporali, da quando è vecchio, lo spaventano più di prima. Gli ho accarezzato la testa e ho sentito il suo pelo umido di caldo, la sua vita fragile sotto la mia mano.
“Stanotte non potete scendere,” ho detto, guardando fuori dove l’acqua già correva a righe nel cortile. “La strada diventa un fiume quando viene giù così.”
“Ce la facciamo,” ha detto Dario.
“Se vi fate male, mi fate un favore o un altro debito?” ho risposto, e lui ha capito che non era una domanda.
Dario ha guardato Elena, e per la prima volta li ho visti come quando erano ragazzi, quando uno cercava l’altro per decidere. L’avvocato ha fatto un passo indietro, come se improvvisamente ricordasse che non era casa sua. Elena ha annuito, stanca, e si è tolta il cappotto.
Quella sera abbiamo mangiato pane e formaggio, e il rumore della pioggia ci ha costretti a stare lì, nello stesso spazio, senza fughe.
Dario continuava a guardare l’orologio anche se non serviva a niente, come se il tempo fosse un lavoro da controllare. Elena ogni tanto allungava una mano verso Rocco, e lui la lasciava fare, ma senza entusiasmo, come un vecchio che non vuole chiedere nulla.
A un certo punto Rocco ha tossito, una tosse profonda che non gli avevo sentito da giorni. Mi si è stretto il cuore, perché gli animali, quando sono anziani, non ti avvisano a lungo. Dario ha smesso di guardare l’orologio e ha guardato me.
“È… sta male?” ha chiesto, e la sua voce si è incrinata su una parola che non usava mai: paura.
“Sta diventando fragile,” ho detto. “Come tutti noi.”
Nella notte il temporale ha peggiorato e l’elettricità è saltata. Le ombre della cucina sono diventate grandi e straniere, e la fiamma di una candela faceva ballare i ricordi sulle pareti. Rocco tremava, non solo per il tuono, ma per quel corpo che non regge più le battaglie piccole.
“Elena,” ho detto piano, “prendi la coperta di Lucia nell’armadio.”
“Quella… quella a fiori?” ha chiesto lei.
“Quella,” ho risposto, e per un attimo ho sentito il nome di mia moglie sedersi con noi.
Elena è tornata con la coperta e l’ha stesa su Rocco, e quel gesto, così semplice, ha fatto più di mille discussioni. Dario si è inginocchiato senza pensarci, e ha appoggiato una mano sul fianco del cane, come per sentire se respirava ancora bene. L’avvocato, imbarazzato, si è spostato in corridoio e ha fatto finta di guardare una foto appesa al muro.
“Papà,” ha detto Dario, a voce bassa, “io non sapevo del femore.”
“Non te l’ho detto,” ho ammesso. “Perché ero orgoglioso, e perché ero stanco di chiedere.”
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