Valeria la guarda, esitante. Io faccio un cenno. Sveva entra in cucina, ma non sembra più una diva: sembra una donna che sta scegliendo di non recitare.
Sveva appoggia la borsa sulla sedia e dice, con una calma quasi imbarazzata:
“Quando arrivo con i regali… lo so che faccio casino. Lo faccio perché… perché è l’unico modo che ho per sentirmi importante per loro.”
Resto in silenzio, e il silenzio non è punizione: è spazio. Sveva continua, e per la prima volta la sua voce perde quella risata perfetta.
“Io non so cosa significa essere lì ogni mattina. Io non so chi ha paura dei temporali. Arrivo due volte l’anno e… compro un applauso. È comodo. È triste.”
Valeria si porta una mano alla bocca, come colta in fallo, e le lacrime le scendono senza dignità, come scendono a chi non ce la fa più a tenere su tutto.
“Mamma, io non volevo… non volevo che tu ti sentissi un mobile. Io… io pensavo che fosse normale.”
“È normale,” dico, “finché qualcuno non sparisce.”
Marco si passa una mano tra i capelli, stanco.
“Renata, io… io ti ho dato per scontata. E mi vergogno.”
Ecco, la parola giusta: scontata. Non cattiva, non ingrata. Scontata come l’acqua dal rubinetto, come il pane in tavola. Ti accorgi di lei quando manca.
Valeria fa un respiro lungo, poi mi guarda dritto.
“Cosa vuoi, mamma? Dimmi tu. Perché io… io ho paura che tu non torni più.”
Sorrido appena, e il sorriso non è dolcezza gratuita: è una decisione.
“Io torno. Perché li amo. Ma non torno come prima.”
Ci sediamo, e parliamo come non parlavamo da anni. Non di compiti, non di orari, non di chi deve prendere chi, ma di confini, di fatica, di rispetto. Scopriamo che anche Valeria è stanca, che anche Marco è stanco, che la loro vita è diventata una corsa dove la cura è stata data in appalto a me senza contratto e senza ringraziamento.
“Da domani,” dico, “ci sarà un calendario. Non una supplica. Un calendario.”
Valeria annuisce, asciugandosi le guance.
“Due giorni a settimana, massimo? E se c’è un’emergenza vera, te lo chiediamo prima, non te lo diamo per scontato.”
“E io,” aggiunge Marco, “mi organizzo con il lavoro. E… paghiamo una persona per due pomeriggi. Non è una sconfitta. È… è responsabilità.”
Sveva si schiarisce la gola.
“Posso contribuire io,” dice, e per la prima volta non suona come ostentazione. “Non con regali. Con qualcosa di utile. Per la babysitter, per il doposcuola. E magari… magari posso venire più spesso. Ma non per essere la nonna del divertimento. Per essere una nonna, punto.”
Mi sorprende, e non perché sia improvvisamente diventata buona o cattiva. Mi sorprende perché sembra umana. E in quel momento capisco una cosa che mi fa male e mi libera: anche lei, nel suo modo luccicante, era sola.
Quando torniamo in salotto, i bambini ci guardano come si guarda una riunione di adulti che decide il destino del mondo. Camilla si alza piano e viene verso di me, tenendo in mano un foglio piegato.
Me lo porge senza guardarmi negli occhi.
“Nonna… ho fatto una cosa.”
Apro il foglio. È un disegno: quattro figure con le mani unite, un cane da qualche parte (non so perché, ma c’è), e sopra, scritto con le lettere incerte: “NONNA RENATA È FORTE”. Il tratto è tremolante, ma è vero.
Camilla deglutisce e finalmente mi guarda.
“Ieri… io… ho detto una cosa brutta.”
Valeria fa per intervenire, ma io alzo una mano. Voglio sentirla. Camilla stringe le spalle, come se portasse uno zaino troppo pesante.
“Tu non sei noiosa. Tu… tu fai le cose che… che tengono su tutto. Io non lo sapevo.”
Lorenzo si avvicina e mi prende la mano, senza parlare. Le sue dita sono fredde, come sempre quando è agitato, e io lo stringo piano, come si stringe una promessa.
Mi chino all’altezza di Camilla, e la mia voce è morbida ma chiara.
“Amore, io non voglio che tu scelga tra le nonne come se fossero giocattoli. Io voglio che tu capisca che l’amore non è solo quello che brilla.”
Camilla annuisce, e una lacrima le scende senza fare rumore.
“Ti voglio bene,” dice, “anche quando mi fai fare i compiti.”
“E io ti voglio bene,” rispondo, “anche quando non mi dici grazie. Ma da oggi impareremo a dircelo.”
Quella sera restiamo a cena, ma non per servire. Marco ordina una pizza, e io non mi alzo a sistemare ogni cosa. Valeria mette i piatti, i bambini apparecchiano storto, e nessuno muore per un bicchiere messo male.
A un certo punto, Camilla spegne il tablet da sola e lo mette via. Non perché il tablet sia cattivo, ma perché oggi ha capito che non è il centro del salotto. Il centro del salotto, stasera, è una nonna che non si è lasciata consumare.
Prima di andare via, Valeria mi accompagna alla porta. La sua voce è più bassa, più vera.
“Mamma… ti chiedo scusa. Non per stamattina. Per… per gli anni.”
Le prendo le mani, e sento che anche lei trema.
“Non serve che tu ti flagelli,” dico. “Serve che tu cambi.”
Valeria annuisce, e mi abbraccia forte, senza parole giuste, ma con un corpo che finalmente mi riconosce. Dietro di lei, Marco mi guarda e fa un cenno, e Sveva resta un passo indietro, come chi ha capito che il posto non si compra: si guadagna.
Torno a casa con una leggerezza nuova, e non perché la vita sia diventata facile. È perché, per la prima volta dopo tanto tempo, non sto tornando a essere un’infrastruttura. Sto tornando a essere una persona.
La notte, sul comodino, metto il romanzo giallo aperto a metà. E vicino, un foglio con un disegno stropicciato che vale più di mille scatole bianche e piatte.
Il telefono è silenzioso. E anche se domani suonerà di nuovo, io so già la differenza. Perché da oggi, quando chiameranno “Nonna Renata”, non chiameranno un servizio. Chiameranno me.






