La mattina dopo, quando mi sono svegliata, la prima cosa che ho fatto è stata allungare la mano verso il comodino, come sempre, per cercare il badge.
Non c’era.
Il cuore mi ha dato un colpo secco, come quando senti un allarme e non capisci subito da quale stanza arrivi. Poi è arrivato il silenzio: un silenzio vero, senza passi nel corridoio, senza carrelli che cigolano, senza voci che chiamano “Vìa!” da qualche parte.
Sono rimasta seduta sul letto con la camicia da notte addosso e una domanda che mi bruciava in gola più del caffè: e adesso?
Non era riposo. Era vuoto.
Ho aperto la finestra. L’aria di provincia era fredda e umida, quella che sa di inverno e di pane appena sfornato dal forno all’angolo. Lodi si svegliava come sempre: motorini, cani, serrande, qualche clacson impaziente. Il mondo andava avanti benissimo senza di me, e questa cosa — per quanto fosse ovvia — faceva male.
Sono scesa in cucina e ho messo su la moka. Mi sono seduta al tavolo con la tazza tra le mani, guardando la luce che entrava obliqua sulla tovaglia. La mia casa, improvvisamente, sembrava troppo ordinata. Troppo ferma. Come se aspettasse un rumore che non sarebbe più arrivato.
Alle dieci e undici, per quarantadue anni, io ero già stata chiamata almeno tre volte.
Ora nessuno chiamava.
Mi sono detta: “È normale, Via. Ti serve tempo.” Ma la voce dentro di me, quella più antica, quella che sentiva la febbre prima del termometro, mi ha risposto: “Non è solo tempo. È identità.”
Ho appoggiato la tazza e ho aperto un cassetto. Lì dentro, come in un piccolo museo personale, c’erano cose che non avevo mai avuto il coraggio di buttare: un paio di forbicine, una penna con il logo dell’ospedale consumato, un vecchio taccuino con nomi e orari scritti a mano, quando ancora si facevano le consegne con la biro e la memoria.
Tra quei fogli, ho trovato un post-it giallo, ingiallito sul serio. Era scritto con la grafia di mia madre.
“Ricòrdati: essere gentile non è essere debole.”
Mi è venuto da ridere, ma era un riso che faceva tremare un po’ le labbra. Ho sentito salire la voglia di piangere, quella che arriva senza preavviso, come un paziente che collassa mentre tutti pensano che “sta andando meglio”.
Ho respirato.
E in quel momento, il telefono ha vibrato sul tavolo.
Numero sconosciuto.
Ho guardato lo schermo come se potesse esplodere. Poi ho risposto, con quella voce professionale che non mi abbandona nemmeno quando sono in pigiama.
« Pronto? »
Dall’altra parte, una pausa. Poi una voce femminile, giovane, un po’ tesa.
« S… signora Lavinia? Vìa? Sono Chiara. La coordinatrice. »
Ho sentito lo stomaco stringersi. Per un secondo ho pensato: “Ecco, ora mi diranno che ho sbagliato qualcosa. Che devo tornare. Che c’è una pratica. Che manca una firma.” Perché noi infermiere viviamo di responsabilità anche quando dormiamo.
« Dimmi, Chiara. »
Lei ha preso fiato.
« Ieri… è successo un casino. Dopo che lei è uscita dalla stanza del paziente… quello con il telefono. »
Il cuore mi è andato in gola.
« Sta bene? »
« Sì, sì. Sta bene. Ma… ascolti. Lui ha fatto un reclamo. Uno di quelli formali. Dice che lei è stata scortese e… e che l’ha “abbandonato”. »
Ho chiuso gli occhi.
Ecco. Era arrivato. Il colpo di coda. La punizione finale.
« Ho lasciato la stanza dopo aver finito la flebo e scansionato il braccialetto. » La mia voce era piatta, come quando fai un report e non puoi permetterti emozioni. « Non l’ho abbandonato. »
« Lo so. Lo sappiamo. Le telecamere nei corridoi, le registrazioni dei passaggi, tutto. Il punto è un altro. »
« Qual è? »
Chiara ha esitato. Poi, quasi in un sussurro, ha detto:
« Ieri sera lui è tornato in pronto soccorso. Con la moglie. Perché… perché le era venuto un attacco d’ansia forte. E mentre la visitavano, lei ha detto al medico di guardia che voleva parlare con lei. Con “l’infermiera di ieri”. »
Ho sentito un brivido freddo lungo la schiena.
« Con me? »
« Sì. Ha chiesto di lei per nome. E… e stamattina è venuto di persona in direzione. Ha ritirato il reclamo. E ha lasciato una lettera. Per lei. »
Silenzio.
« Una lettera? »
« Sì. E ha chiesto se poteva incontrarla. Non in ospedale. Fuori. Dove vuole lei. »
Mi sono passata una mano sul viso. Ho guardato la moka, che ormai era fredda. Ho guardato il post-it di mia madre. E ho sentito un nodo dentro, un nodo fatto di rabbia, stanchezza, ma anche di curiosità.
Perché una cosa la sapevo: quando qualcuno ti cerca davvero, è perché qualcosa dentro gli è crollato.
« Dov’è quella lettera? » ho chiesto.
« In portineria. Gliela faccio lasciare. Oppure… posso portargliela io. »
« No. Vengo io. »
Ho detto “vengo” e mi sono sorpresa. Perché io avevo appena detto “mi dimetto”. Avevo appena dichiarato il mio confine.
Eppure… in quel momento, non stavo tornando al lavoro.
Stavo andando a prendermi una risposta.
—
Sono arrivata all’ospedale senza divisa. Con un cappotto beige e i capelli legati male. Mi sembrava di entrare in casa di qualcuno dopo una separazione, con la sensazione che ogni cosa ti riconosca e ti giudichi.
Il parcheggio era pieno come sempre. Le stesse macchine. La stessa sbarra. La stessa aria di fretta.
Eppure io ero diversa.
Camminando verso l’ingresso, ho incrociato un ragazzo con la cartellina in mano: uno specializzando, di quelli giovani, con la faccia tirata e gli occhi già stanchi. Mi ha guardata e, per un istante, non mi ha riconosciuta.
Poi ha spalancato gli occhi.
« Vìa? »
Ho sorriso appena.
« Ciao, dottore. »
Lui si è avvicinato come se temesse di sbagliare.
« Ma… lei non… »
« Non sono più qui. » Ho detto la frase senza tragedia, come si dice “oggi piove”. « Sono venuta solo a prendere una cosa. »
Lui ha abbassato lo sguardo, imbarazzato.
« Mi dispiace. »
« Non devi dispiacerti tu. » Gli ho toccato il gomito, un gesto minimo. « Dormi quando puoi. E guarda le facce. Non solo i monitor. »
Lui ha annuito, come se gli avessi dato un ordine più importante di qualunque protocollo. E ha fatto una cosa che mi ha fatto stringere il cuore: mi ha detto “grazie” guardandomi davvero.
Ho continuato a camminare.
In portineria c’era Enzo, quello di sempre, con la pancia e la battuta pronta.
« Oh! Ma guarda chi c’è… » ha detto, e poi si è fermato, come se si fosse ricordato all’improvviso che certe cose fanno male. « Scusami, Vìa. »
« Tranquillo, Enzo. » Ho sorriso. « Sono viva. »
Lui ha tirato fuori una busta bianca, senza intestazione.
« È questa. Ha detto che è per te. »
Ho preso la busta con due dita, come si prende qualcosa di fragile. Poi sono uscita e mi sono seduta su una panchina fuori, dove i fumatori si appoggiano a respirare un minuto di libertà tra un turno e l’altro.
Ho aperto la busta.
La lettera era scritta a mano. Una grafia maschile, nervosa, ma curata.
> “Signora Lavinia,
> ieri ho detto una cosa che mi vergogno anche solo di aver pensato.
> Le ho detto ‘solo un’infermiera’ perché ero spaventato. E quando ho paura, divento arrogante. È il mio modo di fingere di avere controllo.”
Ho deglutito.
> “Mia madre è morta nel 2020. Non l’ho salutata. Mi hanno fatto vedere il suo viso su un tablet. E io non sono riuscito a dirle quello che dovevo.
> Ieri, quando lei controllava quella terapia, ho visto la stessa cosa che avevo visto allora: qualcuno che si prendeva cura davvero, mentre io pensavo solo al tempo, al lavoro, alle scadenze.”
Le mani mi hanno iniziato a tremare un po’. Non per paura. Per memoria.
> “Quando lei è uscita dalla stanza, io ho sentito un vuoto come un pugno. Perché ho capito che avevo appena ferito l’unica persona che in quel momento mi stava proteggendo.
> Ho fatto il reclamo perché mi sono sentito umiliato. Poi sono tornato a casa e ho visto mia moglie crollare. Perché anche lei è stanca. Anche lei si sente ‘solo’.
> E ho capito che io sto diventando la persona che odio.”
Ho chiuso gli occhi. Ho respirato piano.
> “Non le chiedo di tornare. Non ne ho il diritto.
> Le chiedo solo di incontrarmi per cinque minuti. Per dirle grazie. E per chiederle scusa guardandola in faccia.
> Se accetterà, sarò al bar davanti al parco, oggi alle 17. Mi riconoscerà: sono quello con il telefono.
> (O almeno, quello che prova a non esserlo più.)
> Andrea.”
Sono rimasta lì, con la lettera sulle ginocchia, come se pesasse più di una cartella clinica. Avevo rabbia. Avevo diffidenza. Avevo stanchezza. Ma avevo anche qualcosa che non mi aspettavo: una piccola fessura di senso.
Perché la verità è questa: io non avevo bisogno di una scusa per tornare in ospedale.
Io avevo bisogno di capire se il mondo fuori aveva ancora spazio per la gentilezza.
Alle 16:55 ero già al bar davanti al parco. Non per ansia. Per abitudine: io arrivo sempre prima, perché la vita mi ha insegnato che aspettare è meglio che far aspettare.
Il bar era uno di quelli semplici, con i tavolini fuori e le sedie di plastica. In fondo, il parco aveva gli alberi spogli e un’altalena che cigolava al vento. Due signori giocavano a carte su una panchina, urlandosi addosso con affetto.
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