Non Sono Solo Un’Infermiera: Il Giorno In Cui Ho Salvato Me Stessa

L’ho visto subito.

Quarant’anni, giacca scura, lo smartphone in mano. Stava per guardarlo. Poi l’ha infilato in tasca come se scottasse.

Mi sono avvicinata. Lui si è alzato di scatto, goffo.

« Signora Lavinia… »

« Via, se proprio devi. »

Lui ha annuito, come uno scolaro.

« Via. »

Ci siamo seduti. Un cameriere ha portato due caffè senza chiedere. Qui in provincia funziona ancora così: se ti vedono parlare con una faccia seria, ti portano qualcosa da bere, come se fosse un gesto di pace.

Andrea ha guardato la tazzina, poi me.

« Ieri… » ha iniziato, e la voce gli si è rotta subito. Si è schiarito la gola, umiliato. « Ieri ho fatto una cosa che… non so nemmeno come mi sia venuta fuori. »

Io ho appoggiato le mani sul tavolo.

« Le parole escono quando il cuore non sa dove mettere la paura. » Ho detto piano. « Ma le parole fanno male lo stesso. »

Lui ha annuito, con gli occhi lucidi.

« Lo so. »

Ha fatto una pausa, poi ha detto una cosa che non mi aspettavo.

« Mia moglie si chiama Sara. Fa l’assistente domiciliare. Va nelle case degli anziani, li lava, li cambia, li ascolta. E la gente la tratta come se fosse aria. Come se fosse un servizio a ore. Ieri sera mi ha guardato e mi ha detto: “Anche tu mi parli così, a volte. Anche tu mi fai sentire piccola.” »

Mi sono sentita stringere lo stomaco.

« E allora? » ho chiesto.

« E allora ho capito che… » ha abbassato lo sguardo, « che io sono diventato quello che pensa che il lavoro degli altri sia meno importante del suo. Che io ho disimparato la gratitudine. »

Ho sorseggiato il caffè. Era amaro, ma caldo.

« Non sei l’unico. » ho detto. « Ma sei uno dei pochi che se ne accorge. »

Andrea ha tirato fuori un foglio piegato.

« Questo… non è per comprare il suo perdono. Non ci riuscirei comunque. Ma… ieri ho chiesto a Chiara come funziona per lasciare un ringraziamento ufficiale al reparto. Un elogio, una segnalazione positiva. Ho scritto anche una mail alla direzione. Con il suo nome. Con quello che ha fatto. Con quello che significa. »

Mi ha passato il foglio. Era una copia, timbrata.

Io l’ho guardata come si guarda un gesto raro: con prudenza e incredulità.

« Perché? »

Lui ha alzato le spalle, ma gli tremava il mento.

« Perché mia madre non l’ho salutata. E forse non posso aggiustare quella cosa. Ma posso… posso almeno non ripetere l’errore. »

Silenzio.

Ho guardato il parco. Ho visto una bambina correre verso un cane. Ho visto un uomo che la richiamava. Ho visto un vecchio che si aggiustava la sciarpa e guardava il mondo con calma.

E ho sentito che dentro di me qualcosa, per la prima volta dal giorno prima, si sgonfiava.

« Andrea. » ho detto.

« Sì? »

« Io non torno in ospedale. »

Lui ha annuito subito, quasi sollevato di non dover convincere.

« Lo capisco. »

« Ma questo non significa che io smetto di essere me. » Ho battuto un dito sul tavolo, piano. « Io ho lasciato un posto. Non ho lasciato la cura. »

Lui mi ha guardata, confuso.

« Cosa vuol dire? »

Ho inspirato.

« Vuol dire che… forse non ero stanca di prendermi cura. Ero stanca di farlo in un posto che non mi lasciava più farlo bene. »

Andrea è rimasto zitto.

Io ho continuato, con una chiarezza che mi sorprendeva.

« Ci sono persone fuori che hanno bisogno di una mano che non trema. Che hanno bisogno di qualcuno che sappia ascoltare senza cronometro. E io… io ho ancora mani. Ho ancora occhi. Ho ancora cuore. »

Lui ha sorriso appena, un sorriso triste.

« Quindi… cosa farà? »

Io ho guardato le mie dita. Quelle dita che avevano chiuso flebo, carezzato fronti febbrili, stretto polsi spaventati. Quelle dita che, ieri, avevano firmato una dimissione.

« Non lo so ancora. » ho ammesso. « Ma so che non voglio restare chiusa in casa a sentirmi finita. »

Andrea ha annuito lentamente.

« Mia moglie… » ha detto. « Sara… lei dice sempre che la cosa più dura è quando un anziano è solo. Non malato. Solo. »

Ho sentito un clic dentro, ma non era uno schermo. Era un’intuizione.

« Dove lavora tua moglie? » ho chiesto.

« È in cooperativa… » si è fermato, e si è morso la lingua, come se si ricordasse che i nomi non contano. « Fa assistenza nella zona. In un quartiere dove ci sono tanti anziani rimasti senza famiglia. »

Io ho annuito.

« Dille che, se vuole, posso darle una mano. Non come dipendente. Non come “risorsa”. Come persona. Un paio di mattine a settimana. Per accompagnare, per ascoltare, per… stare. »

Andrea mi ha guardata come se non avesse capito.

« Ma… lei è appena andata via. »

« Proprio per questo. » ho detto. « Per ricordarmi che non sono sparita. »

Lui ha abbassato gli occhi, e quando li ha rialzati erano lucidi.

« Sa una cosa? » ha detto piano.

« Dimmi. »

« Ieri io le ho detto ‘solo un’infermiera’. Oggi… oggi mi sembra che lei sia una di quelle persone che tengono in piedi il mondo quando il mondo si distrae. »

Io ho sorriso, ma non era un sorriso di vittoria.

Era un sorriso di ritorno.

« Non esagerare. » ho detto, e poi ho aggiunto la cosa più vera che avevo: « Però sì. Io tengo. E finché tengo, posso stare accanto. »

Quella sera, tornando a casa, ho fatto una deviazione. Sono passata davanti alla scuola infermieri dove avevo studiato, tanti anni fa. Il portone era lo stesso, la pietra consumata. Ho visto due ragazze in divisa nuova uscire ridendo, il telefono in mano, la testa piena di futuro.

Ho rallentato.

E ho sentito una cosa strana: non nostalgia. Non rimpianto. Piuttosto… una specie di rispetto per la me stessa di allora, quella che credeva che prendersi cura fosse un modo di stare al mondo.

Non si era sbagliata.

Aveva solo sottovalutato quanto il mondo avrebbe provato a sbriciolare quella convinzione.

Quando sono arrivata a casa, ho preso un quaderno nuovo. Ho scritto in alto, con una grafia più grande del solito:

“Cose che posso fare senza perdere l’anima”

Sotto, ho fatto una lista semplice:

* Due mattine con Sara, a domicilio.

* Un pomeriggio al mese per parlare ai ragazzi che studiano: non di procedure, ma di persone.

* Telefonare alla signora del terzo piano che non vede nessuno da giorni.

* Portare la spesa a chi fa fatica a uscire.

* Imparare a stare ferma senza sentirmi inutile.

Ho guardato quella lista e mi è venuto da ridere, ma stavolta era un riso buono. Un riso che sa di “posso ancora”.

Il telefono ha vibrato. Un messaggio da Chiara.

“Vìa, la tua lettera di ringraziamento è arrivata in direzione. E… oggi, per la prima volta dopo mesi, in reparto qualcuno ha detto: ‘Dobbiamo tornare a guardarli in faccia’. Non so se cambierà qualcosa. Ma oggi l’hanno detto.”

Ho letto due volte.

Poi ho appoggiato il telefono.

Mi sono seduta sul divano con una coperta sulle ginocchia, e per la prima volta da tanto tempo non mi sono sentita in fuga.

Non perché il dolore fosse sparito.

Ma perché aveva finalmente smesso di essere inutile.

Ho pensato a tutte le mani che avevo tenuto. A tutte le mani che avevano tenuto me. Ho pensato al signor Kowalski, alla sua foto ingiallita, alla sua fiducia.

E ho capito una cosa, semplice e enorme:

Io non ero più “l’infermiera dell’ospedale”.

Ma ero ancora quella che resta quando qualcuno ha paura.

Ho spento la luce.

E nel buio ho sentito la mia voce, per la prima volta non stanca, dire a me stessa:

« Ci sono. »

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