La casa è a mio nome, ma loro ci vivono come se fosse loro. Niente affitto. Le utenze? Coperte da me il più delle volte. Visite e esami? Ho accesso a buone assicurazioni, sì. Non ho mai detto di no.
Fino a poco tempo fa. Qualche mese fa mi ha chiamato Silvia. Giulia, sua figlia, quella che non sbaglia mai, era stata presa a un prestigioso campus estivo di scienze.
«Ha preso il tuo cervello,» ha detto, come se fosse un complimento. «Questo le potrebbe cambiare la vita.»
Ho chiesto quanto costasse. «Milletrecento euro,» ha detto. «Ma ne vale la pena. E tu, proprio tu…»
Lì ho smesso di ascoltare. Marta non era mai stata a un corso del genere. Non perché non potesse, ma perché non aveva mai chiesto. È pratica. Attenta. Non si sognerebbe di pretendere una cifra simile da me, anche se avrebbe potuto.
Ho detto a Silvia di no. Educatamente, ma con fermezza. Le ho spiegato che stavo già pagando il mutuo dei nostri genitori, le loro spese mediche e mille “emergenze”. Che magari poteva informarsi su borse di studio o rateizzazioni.
Il suo tono è cambiato subito. «Beato chi ha tutto e riesce comunque a essere così tirchio. È tua nipote. Sei solo gelosa perché Giulia sta andando più avanti di te.»
Quella era quasi divertente. O lo sarebbe stata, se non avessi sentito mia madre mormorare qualcosa di simile una settimana dopo, convinta che non l’ascoltassi. A quanto pare, io stavo “impedendo a Giulia di realizzarsi”. Come avevo sempre “bloccato” Silvia, facendo la parte di quella “troppo brava a scuola” che faceva sembrare tutti gli altri peggiori. Solo per il fatto di esistere.
Non ho discusso. Non ho spiegato. Non mi sono giustificata. Ho solo detto no. E lo pensavo davvero.
Questo è successo tre settimane prima di Natale. Marta era entusiasta all’idea di andare al pranzo di Natale. Diceva che si sentiva grande, perché le avevamo affidato la macchina.
Aveva preparato il borsone, aveva impacchettato dei piccoli regali per i cuginetti. Le ho detto che l’avrei vista il giorno dopo e le ho ricordato di mandarmi un messaggio quando fosse arrivata. L’ha fatto. Sembrava tutto a posto.
Ore dopo, ho aperto la porta di casa e ho scoperto che “a posto” non esisteva più. Marta mi ha guardata dal divano con un sorriso tremante che diceva: «Per favore, facciamo finta che non sia successo niente di grave.»
Mi ha raccontato, con una vocina minuscola, che la nonna aveva mormorato «non c’è posto a tavola, né da nessun’altra parte.» Anche se lei aveva contato ventotto sedie occupate. Un problema di matematica con una sola variabile. Lei.
Ho ascoltato. Ho lasciato che le sue parole rimbalzassero nella stanza come una valigia lasciata cadere. Poi l’ho stretta tra le braccia e ho lasciato che fosse il silenzio a parlare. Si è addormentata con addosso il maglione scelto apposta per fare bella figura con loro.
Quando la casa si è finalmente placata, sono rimasta sola in cucina, a fissare il posto dove sarebbe dovuta esserci la sua cena di Natale. Ho ripensato a ogni rata del mutuo, a ogni bolletta pagata, a ogni «solo questa volta, Chiara» che si era trasformato in «per sempre».
Non avevano finito lo spazio. Avevano finito la gratitudine. E avevano usato mia figlia per farmelo sapere. In quel momento si è girata una chiave dentro di me. Niente più spiegazioni. Niente più trattative educate. Non dovevo nemmeno decidere se avrei fatto qualcosa. Solo quando.
Durante il tragitto verso casa dei miei non abbiamo parlato molto. Mio marito era seduto accanto a me in silenzio, con la mano appoggiata leggera sul mio ginocchio, come un filo di terra. Non era una carezza, esattamente. Era presenza. E bastava.
La mattina del 26 dicembre ha sempre quella strana quiete ovattata, come se il mondo fosse ancora ubriaco di zucchero e carta da regalo. Speravo solo che la casa fosse vuota. Non lo era.
C’erano ancora due macchine in più nel vialetto. Una era di Silvia. L’altra probabilmente di qualche cugino rimasto per finire gli avanzi.
Siamo scesi dalla macchina. Stringevo la busta in mano. Non avevo dormito. Il turno. La scena con Marta. Il piattino con il pane freddo sul bancone che nessuno aveva ancora tolto. Tutto ronzava nel mio cervello come un fusibile bruciato.
Ho suonato. Ho aspettato. Nessuno. Ho suonato di nuovo. Ho bussato. Niente.
«Lasciamola lì,» ha detto piano mio marito.
Sono rimasta un secondo di troppo davanti alla porta, poi ho annuito. Siamo tornati verso la macchina. Ho infilato la busta con cura nello spiraglio della porta, dove non potesse volare via.
Stavo aprendo lo sportello quando l’ho sentito. Il cigolio della zanzariera. Un passo con le pantofole.
Mi sono girata. Mia madre è uscita, avvolta in una di quelle vestaglie di pile che indossava sempre a Natale. Quelle di cui si vantava dicendo di averle pagate «al novanta per cento di sconto».
Si è chinata, ha raccolto la busta, l’ha aperta e ha iniziato a leggere. La faccia le si è svuotata. Poi è impallidita. Poi ha urlato.
«Enrico!» La voce le è uscita stridula, come un filo che si spezza. «Enrico, vieni subito! Vuole buttarci fuori di casa!»
Mio padre è apparso sulla porta con i vestiti del giorno prima. «Ma che diavolo…?»
È arrivata anche Silvia, ancora in pigiama di Natale, stringendo una tazza come se quella mattina dovesse essere coccolosa e tranquilla. «Che succede?»
Mia madre si è girata e ha puntato il dito verso il vialetto, come se fossi un cane randagio che aveva sporcato il suo tappeto. «Ingrata che non sei altro…»
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