Siamo saliti in macchina e siamo ripartiti prima che potessi sentire la frase intera. Non importava. Conoscevo già il repertorio.
Quando siamo arrivati a casa, il mio telefono stava già vibrando. L’ho ignorato. Poi ha vibrato di nuovo. E di nuovo. Alla sesta chiamata ho risposto.
«Come osi!» ha urlato mia madre. Niente “ciao”. Niente pausa. Neppure una finta preoccupazione per Marta. «Sei impazzita del tutto!»
Ho allontanato il telefono dall’orecchio. Sentivo comunque mio padre urlare in sottofondo. «Se lo fai, non sei più nostra figlia!»
Non hanno chiesto perché. Non hanno chiesto cosa fosse successo. Non hanno nemmeno nominato Marta. Neanche una volta. Ho chiuso la chiamata.
Hanno continuato. Silvia ha iniziato a mandare messaggi. In uno c’era scritto: «Ti rovinerai la reputazione. Pensa alla tua carriera.» Oh, cara. Ai miei pazienti non importa dove vivono i miei genitori.
Alla sera il mio telefono sembrava quello di qualcuno appena lasciato. Trentadue chiamate perse. Quattordici messaggi. Tre vocali. Una cugina ha avuto perfino il coraggio di scrivere: «Non sono affari miei, ma mi sembra esagerato. Una mamma ce l’hai una sola.»
Non ho risposto a nessuno. La mattina dopo, qualcuno ha bussato alla porta. Ho guardato dallo spioncino. Ovviamente. Mia madre.
Era sul nostro pianerottolo con la solita vestaglia di pile, stringendo la lettera di sfratto, ormai spiegazzata e umida, come se l’avesse torta tra le mani per due ore. Ho aperto la porta, ma non l’ho invitata a entrare.
Lei non ha aspettato. «Lo stai facendo davvero?» ha sibilato. «Dopo tutto quello che abbiamo fatto per te?»
Ho lasciato che la frase rimanesse sospesa un attimo. Poi ho detto piano: «Intendi la casa che ho comprato per voi? Le bollette che ho pagato? Le cure che ho organizzato perché la pensione non bastava per i tuoi farmaci?»
Ha avuto un sussulto. Per un millisecondo. Poi si è raddrizzata, con gli occhi freddi. «Ti abbiamo cresciuta. Ti abbiamo dato tutto.»
«Non avete neanche fatto mangiare mia figlia,» ho detto.
Questo l’ha fermata. Per poco. Poi si è ripresa. «Non fare la tragedia. Non avevamo abbastanza sedie.»
«C’erano ventotto persone,» ho risposto. «Persino una vicina.»
Ha serrato le labbra. «Non vi ho mandato quella lettera per cattiveria,» ho aggiunto. «Ma se pensate di poter trattare Marta come se fosse usa e getta…»
«Per l’amor del cielo!» ha sbottato, improvvisamente animata. «Smettila di farci passare per mostri! Sei tu che stai distruggendo la famiglia per un malinteso, e ora minacci i tuoi stessi genitori?»
Ha alzato la lettera come se fosse una prova in tribunale. Poi — e giuro che è sembrata una scena recitata — l’ha strappata a metà. Lì, davanti a me. Come se questo potesse annullare la procedura legale.
«Ecco,» ha detto. «Finita. Adesso, se vuoi che ti perdoniamo, pagherai il campus di scienze di Giulia e smetterai con questa sceneggiata.» Ha sorriso, soddisfatta, come se avesse risolto tutto.
Io non ho detto niente. Perché quello è stato il momento in cui ho capito: non mi avevano mai presa sul serio. Non da bambina. Non quando sono diventata medico. Neppure adesso.
Per loro ero ancora la ragazzina goffa, fissata con la scienza, che doveva accontentarsi delle briciole e stare al suo posto. La figlia che in fondo detestavano, ma che non hanno mai rispettato davvero. Pensavano che non avrei avuto il coraggio di andare fino in fondo.
Si sbagliavano. Così ho lasciato che mia madre se ne andasse dal pianerottolo, borbottando come l’eroina di un dramma. E ho chiuso la porta. Piano. Tranquilla. Ma nella mia testa stavo già organizzando la mossa successiva.
Mia madre ha strappato la lettera di sfratto come se fosse un volantino pubblicitario. Davanti ai miei occhi. Subito dopo avermi dato della egoista, senza cuore e instabile.
Poi ha avuto anche la faccia tosta di sorridere e dire: «Paga il campus di Giulia e ti perdoneremo.» Ha detto «ti perdoneremo». Come se fossero loro le vittime. Come se cacciare via mia figlia il giorno di Natale fosse stata solo una piccola scortesia, e non crudeltà.
Due mattine dopo ero nello studio di un avvocato. Ho raccontato tutto. La casa a mio nome. Il mutuo che pagavo ormai da sette anni. Le bollette. Le visite specialistiche. I sacrifici fatti in silenzio.
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