Lui non ha battuto ciglio. «Immagino che voglia uno sfratto formale,» ha detto, con la stessa voce con cui si commenta il meteo.
Ho annuito. L’atto è partito quella stessa settimana. Sessanta giorni. Tutto legale. Timbro, firma, raccomandata. E quella volta non potevano strapparlo e far finta di niente.
Ho continuato a pagare il mutuo. Non avevo intenzione di rovinarmi la situazione finanziaria per fare un gesto dimostrativo. Ma il resto? Basta. Niente più utenze. Niente più abbonamenti. Niente più rimborsi. Hanno avuto un corso accelerato su cosa voglia dire “nessun aiuto”.
Due settimane dopo qualcuno ha bussato alla mia porta. Era zia Teresa. La zia “buona”. O almeno, così pensavo. Aveva una scatola di biscotti e un’espressione preoccupata che sembrava provata davanti allo specchio.
«Chiara,» ha detto. «Voglio solo parlare.»
L’ho fatta entrare. Sapevo già perché era lì. Ci siamo sedute in cucina. Ho versato il tè. Non l’abbiamo bevuto.
«Non ti riconosco,» ha cominciato. Eccoci. «Buttare fuori i tuoi genitori per… un malinteso?» ha aggiunto, con voce dolce.
Ho riso una volta sola. Non in modo gentile. Le ho raccontato della casa. Delle bollette. Del tradimento della Vigilia. Di come i miei avessero fatto posto a ventotto persone, compresa una vicina e due cugini con cui non parlavo da dieci anni. Ma non alla loro nipote.
Zia Teresa è impallidita. «Non lo sapevo,» ha detto.
«Non te l’hanno raccontato,» l’ho corretta.
Se n’è andata come chi ha sentito qualcosa che non può più dis-imparare. Tre giorni dopo ho ricevuto un messaggio: «Non avevo capito. Adesso sì.»
Una settimana prima della scadenza, mi ha chiamata il mio avvocato. «Non si sono mossi di un millimetro,» ha detto.
«Allora andiamo avanti,» ho risposto.
Ho messo la casa in vendita quello stesso giorno. A un prezzo onesto, non alto. Non volevo “far cassa”; volevo chiudere la storia. Un acquirente ha fatto un’offerta in fretta. Le famiglie adorano quella zona. La volevano solo libera.
«Consegna dell’immobile libero,» mi ha ricordato l’agenzia.
«Capito,» ho detto.
Non sono andata il giorno in cui li hanno fatti uscire. I nuovi proprietari hanno gestito tutto tramite le vie legali. Mi hanno detto che non è stato bello. Ma quello che è venuto dopo non è stato migliore.
Silvia li ha presi con sé. Ovviamente. Mia sorella ha sempre amato interpretare il ruolo della figlia migliore. Ha “rilasciato interviste” a cugini e conoscenti come se fosse una conferenza stampa. «Li sta abbandonando,» diceva. «Tutto per un piccolo errore di Natale.»
Tre settimane dopo era davanti a casa mia. Occhiaie profonde, capelli raccolti in uno chignon disordinato. «Non ce la faccio più,» ha detto, senza neppure salutare.
«Litigano in continuazione. Mamma dice che il salotto è troppo piccolo. Papà dice che i miei figli fanno troppo rumore. Non vogliono condividere il bagno. Sto impazzendo.»
Mi sono appoggiata allo stipite, con le braccia conserte. «Hanno bisogno di un affitto,» ha detto. «Potresti almeno aiutarli con la caparra. Giusto il necessario.»
«No.»
«Chiara…»
«Tu li hai guardati mentre chiudevano la porta in faccia a Marta la sera di Natale e sei rimasta lì. È stata una tua scelta. Questa è la mia.»
Ha sbattuto le palpebre. Poi si è girata ed è andata via. Una settimana dopo, ha mandato via anche loro.
Sono finiti in un appartamento in affitto di cui nessuno si vanterebbe. Due camere, un termosifone che fa quel che può. Il gradino all’ingresso inclinato come una spallucciata. La pensione basta appena per l’affitto e la spesa. Niente più vacanze, niente più cene fuori, niente più crociere di cui parlavano da anni.
Hanno provato a raccogliere compassione dal resto della famiglia. Hanno raccontato che li avevo “tagliati fuori” all’improvviso. Che ero instabile. Che ero sempre stata fredda.
Ma ormai avevo parlato io, in silenzio. Ho mandato ad alcuni parenti le copie delle bollette pagate. Ho inoltrato la lettera di sfratto, con data e timbro.
Un cugino ha risposto solo con: «Caspita.» Un altro ha mandato l’emoji del pollice in su. Nessuno si è precipitato a salvarli. E nemmeno io.
Due mesi dopo, io e Marta eravamo sedute in balcone, a bere un tè freddo. Nessun programma. Nessuna recita. Solo un pomeriggio tranquillo.
Lei ha detto: «Sai, non mi mancano.»
Neanche a me. Il telefono ha vibrato. Numero sconosciuto. Ho aperto il messaggio per riflesso: «Spero tu sia contenta di quello che hai fatto.»
L’ho cancellato. Senza esitare. Senza sospirare.
«Probabilmente scriveranno ancora,» ha detto Marta, quasi divertita.
«Scrivono sempre,» ho risposto. «Ma non sono più un nostro problema.»
Ed era vero. Loro hanno detto che non c’era posto per Marta a tavola. Adesso non c’è più posto, nelle nostre vite, per la crudeltà, il controllo e la manipolazione.
Saltiamo avanti di due anni. Sono ancora in quell’appartamento che cade a pezzi. Ancora convinti che la colpa sia di tutti tranne che loro. Marta, intanto, sta bene. Studia quello che ama.
E i soldi ricavati dalla vendita della casa hanno coperto più che le tasse universitarie. Le hanno comprato un po’ di serenità. E a me? Un pezzetto di pace.
Non rispondo alle loro chiamate. Non mando soldi. Non passo le notti in bianco. Ho protetto mia figlia. L’ho scelta. Finalmente.
Ma dimmi: sono andata troppo lontano? O solo quanto bastava? Scrivimelo nei commenti. E se vuoi altre storie come questa, ricordati di seguirmi






