Nove Mesi con Nonna Lucia: quando chiedere “come stai?” ti salva

Il giorno in cui ho firmato i documenti per dimettere mia nonna dalla casa di riposo e portarla nel mio appartamento di 45 metri quadrati a Bologna, il medico mi fece una sola domanda:

— È sicuro di farcela, signor Marco?

Mi chiamo Marco, ho 27 anni e lavoro nel supporto informatico di un’azienda di medie dimensioni. Buono stipendio per la mia età, contratto a tempo indeterminato, nessun debito. Sulla carta, la mia vita sembra stabile.

Solo che i miei genitori sono morti quando ero all’università e oggi la mia “famiglia” è composta esattamente da due persone: una donna di 89 anni con la voce fragile… e un ragazzo che di giorno risolve problemi di computer e di notte cambia pannoloni.

L’odore della RSA mi era rimasto addosso mentre entravo nella stanza di nonna Lucia: disinfettante, minestra troppo cotta, bucato che non profuma mai davvero di pulito. Era sdraiata su un fianco, lo sguardo perso tra il neon e la finestra.

— Fa freddo qui… mormorò. Quando torniamo a casa, Marco?

“Casa” era la villetta vicino a Modena, con l’albero di mele in giardino, dove ero cresciuto con lei e i miei genitori. Venduta da anni. Ora restava solo il mio appartamento al quarto piano senza ascensore, con un balconcino che dà sui binari della ferrovia.

Mi sedetti sul bordo del letto.

— Nonna, vieni a stare da me.

Le sue dita, sottili come ramoscelli, mi strinsero il polso. Nei suoi occhi c’era qualcosa tra la paura e la speranza.

— Da te? sussurrò. Ma non è posto per una donna così vecchia…

— C’è spazio per tutti e due, mentii.

I primi giorni furono come installare un aggiornamento importante direttamente sul sistema principale: sai che qualcosa può andare storto, speri solo che non succeda.

La mattina l’aiutavo a mettersi seduta lentamente, controllando che non le girasse la testa. Poi aprivo il computer sul tavolo della cucina e mi collegavo al lavoro, mentre lei lasciava la televisione accesa in salotto.

— Marco? Un po’ d’acqua, per favore…

Chiedevo scusa nella riunione, spegnevo il microfono e correvo. Il bicchiere era storto, una macchia d’acqua sulla coperta.

Sentivo salire l’irritazione. Non verso di lei, ma verso quella situazione assurda in cui dovevo risolvere ticket informatici e allo stesso tempo assicurarmi che mia nonna non scivolasse dalla poltrona.

Di notte dormivo con il telefono al massimo volume. Ogni rumore mi faceva sobbalzare. Una volta, verso le tre, era seduta sul letto, con gli occhi spalancati.

— Devo andare al lavoro. Il capo si arrabbierà…

— Nonna, le dissi piano, non c’è più nessun turno. Hai lavorato tutta la vita. Ora puoi riposare.

A volte era sorprendentemente lucida. Mi raccontava dei bombardamenti, delle tessere annonarie, del pezzetto di zucchero che nascondeva per mio padre. Rideva mentre parlava, quella risata roca che ricordavo da bambino.

— Una volta non avevamo niente e dividevamo tutto, diceva. Adesso avete tutto… e vi dividete la solitudine.

Non sapevo cosa rispondere.

Le bollette si accumulavano: luce, gas, farmaci non rimborsati. I colleghi mi chiedevano sempre più spesso di tornare in ufficio, “per il clima del team”. Inventavo scuse, lavoravo di più, mi fermavo oltre l’orario.

Una sera ero seduto tra i moduli dell’ASL e dell’INPS, frasi lunghe, incomprensibili. Io lavoro con il codice, con regole chiare. Quei testi sembravano scritti apposta per confondere.

In quel momento capii perché tante famiglie portano i loro anziani in struttura. Non per mancanza d’amore. Ma perché questa responsabilità, sulle spalle di una sola persona, può diventare troppo pesante.

Presi il telefono e chiamai la RSA. Una operatrice rispose. Feci domande generiche, come se parlassi di qualcun altro.

— Non si senta in colpa, disse. Ha diritto anche lei a pensare a se stesso.

Riattaccai con una sensazione di tradimento, anche se avevo solo chiesto informazioni.

Il crollo arrivò un sabato sera. Nonna non respirava bene, si aggrappava al mio maglione, gli occhi pieni di paura. Le mani mi tremavano mentre chiamavo il 118.

In ambulanza mi stringeva le dita.

— Non lasciarmi sola…

— Sono qui, risposi senza pensarci.

In ospedale la stabilizzarono. Potei restare solo pochi minuti. Tornato a casa, l’appartamento era silenzioso in modo strano. Nessun colpo di tosse, nessun bicchiere che tintinnava.

Quella notte dormii quasi otto ore di fila.

La mattina dopo mi svegliai con un senso di colpa: quel sonno mi aveva fatto bene.

Il medico mi chiamò: poteva tornare a casa, “se c’è qualcuno con lei”. Salendo le scale, si fermò appoggiandosi al corrimano.

— Marco, disse piano, è per colpa mia se non sei mai libero?

Deglutii.

— Anch’io avevo la tua età, continuò. Volevo uscire, ballare. Sono rimasta a casa per assistere mio padre. Ero arrabbiata con lui. Oggi non ricordo la rabbia… ricordo solo la musica che ascoltavamo insieme alla radio.

Mi guardò, più lucida che mai.

— Se un giorno il medico dice che è meglio che io torni lì, fallo. Non sentirti in colpa. Ho solo paura che tu torni dal lavoro e non ci sia nessuno a chiederti: “Com’è andata oggi?”

Quelle parole mi colpirono più di qualsiasi lezione morale.

Capì che per lei non contava dove sarebbe morta, ma come stavamo vivendo insieme fino a quel momento.

Quella sera scrissi per la prima volta nel gruppo del quartiere:

“Ho 27 anni, lavoro nell’informatica e mi prendo cura di mia nonna di 89 anni a casa. Non chiedo soldi, solo consigli per non distruggermi.”

Pensavo che nessuno avrebbe risposto.

Il telefono iniziò a vibrare. Messaggi, suggerimenti, parole gentili. Il giorno dopo trovai un sacchetto di pane fresco davanti alla porta, con un biglietto:

“Per te e tua nonna. Non sei solo.”

Rimase con me nove mesi. Giorni belli e giorni durissimi. Una mattina di ottobre la trovai serena nel letto, le mani intrecciate, un leggero sorriso.

Sul tavolo della cucina c’era un foglietto, scritto con la sua grafia incerta:

“Ricordati di chiederti anche tu: ‘Sei stanco oggi, Marco?’”

Da allora guardo le persone anziane in modo diverso: sulle scale, alla fermata dell’autobus, su una panchina. A volte porto su una borsa della spesa. A volte faccio solo una domanda:

— È stata una giornata pesante?

Non tutti possono accogliere la propria nonna in casa. E non tutti devono farlo.

Ma da lei ho imparato cosa manca di più in questo Paese, tra orari, scadenze e moduli:

qualcuno che ci chieda sinceramente se stiamo ancora reggendo.

A volte basta questo, perché nessuno si senta davvero invisibile mentre invecchia.

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