La mattina in cui ho trovato quel foglietto sul tavolo (“Sei stanco oggi, Marco?”), non ho pianto subito. Ho fatto quello che faccio sempre quando non so dove mettere le emozioni: ho sistemato le cose.
Ho lavato le tazze, ho piegato le coperte, ho aperto le finestre sul rumore dei binari come se l’aria fresca potesse spiegarmi cosa si fa quando una casa smette di aspettare un respiro in più.
Poi ho preso il foglietto e l’ho infilato nel portafoglio, dietro la tessera sanitaria. Non per conservarlo “bene”. Per averlo addosso, come una domanda che non ti lascia scappare.
Quel giorno avevo due appuntamenti. Il primo con l’INPS, per chiudere le pratiche. Il secondo con me stesso, anche se non lo sapevo ancora.
L’ufficio era pieno di gente che stringeva cartelline come salvagenti. Io ero uno dei tanti, ma mi sentivo più piccolo, come se il lutto mi avesse tolto volume e peso.
Una signora con i capelli bianchi, seduta vicino a me, sospirò e si aggiustò la mascherina sotto il mento.
— Anche lei per una pensione di reversibilità? — mi chiese.
Annuii.
— È un labirinto. Mio marito è morto a gennaio. — Lo disse senza piangere, con una voce che sembrava aver finito le lacrime da tempo. — E il peggio è che poi torni a casa e… nessuno ti chiede niente.
Quella frase mi fece un colpo secco nello stomaco, come una porta che sbatte. “Nessuno ti chiede niente.” Era esattamente quello che Lucia aveva temuto.
Quando arrivò il mio turno, la ragazza allo sportello mi parlò con gentilezza, ma con quella gentilezza da procedura: sorriso breve, parole misurate, niente che resti.
Uscendo, mi accorsi che stavo camminando veloce. Come se la città potesse inseguirmi e chiedermi qualcosa, finalmente. Bologna era grigia e umida, un cielo basso che ti accompagna senza promettere nulla.
Sotto i portici, mi fermai davanti a un bar. Dentro c’era una radio accesa. E per un attimo mi sembrò di sentire la voce di Lucia dire: “Oggi non ricordo la rabbia… ricordo solo la musica.”
Entrai e ordinai un caffè. Il barista, un uomo sui cinquanta, mi guardò con attenzione.
— Non ti vedevo da un po’. Prima venivi spesso con… — Fece un gesto vago con la mano, come per non dire “nonna” e non ferirmi.
— Lucia — dissi io, e il nome uscì pulito, senza tremare.
Lui annuì, serio.
— Mi dispiace. Era una signora tosta. — Poi appoggiò il piattino davanti a me e aggiunse, senza enfasi: — Se ti serve un pasto caldo, a pranzo ne facciamo sempre uno in più. Non è elemosina. È abitudine di quartiere.
Mi venne da sorridere e da arrabbiarmi insieme. Sorridere perché era bello. Arrabbiarmi perché nessuno ti insegna che si può accettare.
Nei giorni successivi, tornai al lavoro in ufficio. “Per il clima del team”, come dicevano loro. In realtà, anche per non rimanere troppo a lungo da solo con il silenzio.
I colleghi mi accolsero con frasi standard: “Mi dispiace”, “Se ti serve qualcosa”, “Come stai?”. Ma lo dicevano già mentre aprivano la mail, con gli occhi sullo schermo.
Io rispondevo “Bene” per abitudine. E ogni volta che lo dicevo, sentivo il foglietto nel portafoglio pesare.
Una sera, uscendo, mi fermò Luca, un collega che di solito parla solo di hardware e di calcio.
— Marco… scusa se te lo chiedo così. — Si grattò la nuca, impacciato. — Ma tu… come hai fatto? Nove mesi. Da solo.
Cercai una risposta intelligente. Non la trovai.
— Non ho fatto. — dissi. — Ho retto, finché ha retto anche lei.
Lui abbassò lo sguardo.
— Mia madre sta iniziando a dimenticare. Mio padre fa finta di niente. Io non so da dove cominciare.
In quel momento capii che il mio dolore non era solo mio. Era una stanza piena di gente che nessuno vede, perché tutti stanno “funzionando”. E quando ti senti solo, ti sembra che sia una colpa personale, non una crepa nel sistema.
Quella notte tornai a casa e aprii il gruppo del quartiere sul telefono. Il post che avevo scritto mesi prima era ancora lì, con i commenti, i messaggi, i cuori.
Ne lessi uno che avevo ignorato allora, preso dalla corsa: “Se vuoi, vieni mercoledì al centro civico. C’è un gruppo per caregiver e familiari. Non è terapia. È una stanza dove ci si dice la verità.”
Mercoledì ci andai.
Il centro civico era una sala semplice, sedie in cerchio, un tavolo con biscotti e tisane. Mi sentii ridicolo, come se stessi rubando tempo a qualcuno più disperato.
La coordinatrice, una donna sui quaranta con gli occhiali e un sorriso stanco, mi fece cenno di sedermi.
— Qui non chiediamo curriculum del dolore — disse all’inizio. — Se sei qui, basta.
Quando arrivò il mio turno, mi uscì una frase che non avevo preparato.
— Ho dormito otto ore la notte che mia nonna era in ospedale. — dissi. — E mi sono sentito un traditore.
Nessuno rise. Nessuno mi giudicò. Una signora con le mani gonfie annuì lentamente.
— Non è tradimento — disse. — È il tuo corpo che ha smesso di urlare per un attimo.
Un uomo con la giacca di pelle aggiunse:
— Io ho provato sollievo quando mio padre è entrato in struttura. Poi mi sono odiato. Oggi penso che ho salvato entrambi: lui dalla mia stanchezza, e io dalla mia colpa.
Quelle parole mi rimasero addosso tutta la settimana. “Salvare entrambi.” Lucia l’aveva capito prima di me.
Dopo quell’incontro, cominciai a fare una cosa che mi sembrava sciocca: scrivevo un messaggio a una persona al giorno. Non per raccontare la mia vita. Solo per chiedere.
“Com’è andata oggi?”
A volte rispondevano con una faccina. A volte con un “Tutto ok”. Ma ogni tanto arrivava un fiume.
Una sera mi rispose la signora dell’INPS, quella in sala d’attesa. Non so come avevo il suo numero, forse perché ci eravamo scambiati un contatto “per sicurezza” come fanno gli sconosciuti quando si riconoscono.
“Male. Oggi ho parlato con la foto di mio marito. E poi mi sono sentita matta.”
Le risposi: “Non è follia. È amore che non sa dove andare.”
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