Odiavo il cane del vicino, ma il suo abbaio disperato ha salvato la vita di mia moglie

Per anni, quel cane è stato il mio tormento personale.

Ogni sera, puntuale come la nebbia che sale dal fiume in questa parte della Pianura Padana, lui iniziava. Non appena la mia auto svoltava l’angolo della nostra via, con i fari che tagliavano il buio precoce di dicembre, il concerto cominciava. Forte, acuto, insistente.

Potevo essere ancora all’inizio della strada, ma sentivo già lo stomaco chiudersi. Quell’abbaio metallico fendeva l’aria gelida come una lama di ghiaccio.

All’inizio mi dicevo: “I cani abbaiano, è quello che fanno”. Ma col tempo, quel suono mi era entrato sotto la pelle. Mormoravo tra i denti ogni volta che lo sentivo: “Quella bestia ce l’ha con me”.

Sbáttevo la portiera dell’auto, salivo i gradini di casa più in fretta, stringendomi nel cappotto come se potessi sfuggire a quel rumore. Era diventata una questione personale, una sfida lanciata nel silenzio della sera.

Mia moglie, Serena, vedeva le cose diversamente. — Non è cattivo, Elio — mi disse una sera, guardando fuori dalla finestra appannata. — È solo disperatamente solo. Sempre legato, con la pioggia o con il gelo. Nessuno gli rivolge mai la parola.

Aveva ragione. I vicini erano persone chiuse, fredde come l’inverno che ci circondava. La luce del loro portico rimaneva accesa tutta la notte, ma non uscivano mai.

Il cane, un meticcio dal pelo color fango con un’orecchia spezzata e occhi del colore delle foglie marce, era sempre nello stesso angolo. Una ciotola sbeccata, una coperta che ormai era solo uno straccio.

A volte Serena gli lanciava un pezzo di pane secco oltre la siepe. — Almeno qualcuno si ricorda che esiste — diceva con un sospiro.

E quando lei non poteva, chiedeva a me di farlo. Io brontolavo, sbuffavo nuvole di condensa, ma lo facevo. Il cane abbaiava una volta sola, secca. Forse un grazie. Io giravo la faccia per non incrociare il suo sguardo.

Così passavano gli anni: il suo abbaio, i miei sospiri. Il tempo seguiva il suo corso. Quel suono divenne parte della nostra vita, come il ticchettio di un vecchio orologio. Prima fastidioso, poi familiare.

Abbaiava quando tornavo a casa, abbaiava al postino, ai tuoni dei temporali invernali, alle ombre lunghe del pomeriggio. Abbaiava al mondo per dire: “Sono ancora qui”. E senza rendermene conto, mi ero abituato a quel suono. Avevo finito per averne bisogno.

Fino al giorno in cui arrivò il silenzio.

Era un pomeriggio di metà dicembre. Riportavo Serena a casa dall’ospedale. Era stata malata per molto tempo, e il periodo natalizio rendeva la sua fragilità ancora più evidente. Guidai lungo la solita strada, gli alberi spogli che sembravano scheletri contro il cielo grigio.

Spensi il motore. Nulla. Solo il silenzio ovattato della neve imminente.

— Lo senti? — mi chiese lei, con voce debole. — Cosa? — Il cane. Non abbaia.

Il silenzio pesava come piombo. Mi avvicinai alla recinzione. Il cortile era vuoto. L’erba era alta e brinata, la ciotola capovolta. Bussai alla loro porta. Nessuna risposta. Un vicino che stava rientrando strinse le spalle nelle spalle: si erano trasferiti in fretta e furia due giorni prima.

Chiamai la protezione animali, ma con le feste alle porte, tutto era rallentato. “Se è un’emergenza, faccia quello che deve”, mi dissero sbrigativamente. Il cancello era stato lasciato socchiuso nella fretta del trasloco. Entrai.

Ed eccolo lì. Tra sacchi della spazzatura neri, mezzo nascosto sotto una tettoia pericolante, tremante per il freddo pungente di dicembre. Magro da far paura, sporco, un mucchietto di ossa che cercava di scaldarsi.

Alzò un occhio e mi guardò. Quello stesso occhio che una volta mi sfidava. Ora c’era solo una stanchezza infinita. Lo sguardo di chi ha smesso di aspettare, di chi ha accettato che il suo destino è congelare da solo.

Mi inginocchiai sulla terra ghiacciata e lo sollevai tra le braccia. Era così leggero… non pesava nulla, solo un debole calore che mi colpì al petto come un ricordo doloroso.

Lo misi in macchina, avvolto nella mia sciarpa. Serena si portò le mani alla bocca.

— Dio mio… — Sono andati via — dissi, la voce che tremava di rabbia.

— Lo hanno lasciato indietro come un mobile rotto. — Portalo dal veterinario — ordinò lei.

Non era una richiesta. Annuii.

La veterinaria lo esaminò, sospirò, poi accennò un sorriso stanco. — Disidratato, gravemente denutrito… ma ha una fibra forte. Vuole vivere. Quel sorriso aprì qualcosa dentro di me che credevo chiuso per sempre.

Lo portammo a casa. La nostra casa calda, che profumava di agrumi e riscaldamento acceso. Acqua tiepida, un po’ di cibo morbido, una vecchia trapunta di lana vicino al termosifone. Gli demmo un nome: Castagna, per quel colore caldo che aveva il suo pelo quando veniva pulito.

I primi giorni si muoveva appena. Serena canticchiava piano melodie natalizie, e a volte lui alzava la testa, come se ricordasse una musica di un’altra vita.

Qualche giorno dopo, poco prima di Natale, tornando dal lavoro, l’aria era tagliente e sapeva di neve. Svoltai nella nostra via e lo sentii: un abbaio. Breve, chiaro, inconfondibile.

Risi forte, da solo nell’abitacolo, senza poterlo evitare. Le lacrime mi pungevano gli occhi per il freddo, o forse per altro. Lo avevo capito finalmente. Non era rumore. Era un bentornato.

Castagna diceva: “Sei tornato, ti vedo”.

Da allora abbaia ogni giorno. Quando esco a spalare la neve, quando vado via, quando ritorno. Serena lo chiama “il suo modo di amare”. E ha ragione.

Gli accarezzo il collo ruvido. — Prima non capivo la tua lingua — gli dico. Perché era questo: il suo idioma. Abbaiare significava: “Sono ancora qui. Non mi sono arreso. Aspetto che qualcuno mi ascolti”.

Quando la sua voce è sparita, mancava un pezzo di vita. Quando è tornata, la casa ha ritrovato la sua anima.

La sera, passeggio con lui lungo l’argine, sotto le luci di Natale che iniziano ad accendersi.

La gente si ferma: — Quanti anni ha? Che gli è successo all’orecchio? Perché ti guarda così?

Io sorrido, stringendo il guinzaglio. — Era il cane del mio vicino. Ora è famiglia.

Prima credevo che il silenzio fosse pace. Ora so che, a volte, un po’ di rumore è la cosa più bella del mondo.

Quando entro nella nostra via in queste sere d’inverno e lo sento abbaiare contro il buio, abbasso il finestrino. Lascio che la sua voce entri insieme all’aria gelida.

Non è più rumore.

È lealtà.

È perdono.

È il suono di una seconda possibilità.

È il suono di casa.

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