Odiavo il cane del vicino, ma il suo abbaio disperato ha salvato la vita di mia moglie

Credevo di aver salvato io lui, quella notte di dicembre tra i sacchi della spazzatura e il gelo che mordeva le ossa. Mi sbagliavo.

Ci sono debiti che la vita contrae in silenzio, bilanci invisibili che si pareggiano solo quando meno te lo aspetti. La verità è che Castagna non era entrato nella nostra casa solo per trovare un riparo; era arrivato per montare la guardia.

L’inverno nella Bassa non concede tregua. Dopo Natale, gennaio arrivò portando con sé i “giorni della merla”, quel periodo dell’anno in cui la nebbia non si alza mai veramente, restando impigliata tra i rami nudi dei pioppi lungo l’argine e i tetti delle case coloniche.

Il mondo fuori era un acquerello sbiadito di grigi e bianchi sporchi, ma dentro casa nostra, l’atmosfera era cambiata.

Castagna era rifiorito. Quel mucchietto di ossa tremanti si era trasformato. Il pelo, prima opaco e infangato, ora aveva davvero il colore lucido delle castagne matte che si trovano nei boschi d’autunno.

Aveva preso peso, e la sua camminata, prima incerta, era diventata fiera. Ma c’era una cosa che non era cambiata: il suo sguardo. Quegli occhi color foglie marce non avevano perso la loro profondità; anzi, sembravano aver acquisito una consapevolezza quasi umana.

Avevo imparato a leggere il suo linguaggio, quel vocabolario fatto di abbai, uggiolii e movimenti della coda che un tempo disprezzavo. L’abbaio secco e ritmico alle cinque del pomeriggio significava: “È ora della passeggiata, il buio sta arrivando”.

Il ringhio basso, quasi una vibrazione di gola, quando passava il furgone del corriere espresso significava: “Non mi fido di quella fretta”. E poi c’era il tocco umido del suo naso contro la mia mano mentre guardavo la televisione: “Sono qui. Siamo qui”.

Tuttavia, con il passare delle settimane, notai un cambiamento sottile. Non riguardava me, ma Serena.

Mia moglie non si era mai ripresa completamente da quel malanno di dicembre. Diceva di stare bene, sorrideva mentre lavorava a maglia sulla poltrona vicino alla stufa a pellet, ma il suo respiro si faceva a volte affannoso per il minimo sforzo. La vedevo fermarsi a metà delle scale, portandosi una mano al petto, aspettando che il cuore rallentasse.

— È solo l’umidità, Elio — mi rassicurava, accarezzandomi la guancia. — Appena arriva la primavera, passerà.

Io volevo crederci. Dio solo sa quanto volevo crederci. Ma Castagna sapeva qualcosa che noi ignoravamo.

Iniziò gradualmente. Prima, il cane dormiva nella sua cuccia in cucina, vicino al termosifone. Ma verso la fine di gennaio, iniziò a spostarsi. Ogni notte, sentivo il ticchettio delle sue unghie sul parquet del corridoio.

Veniva a sdraiarsi proprio fuori dalla porta della nostra camera da letto. Non entrava – sapeva che la camera era zona vietata – ma restava lì, sulla soglia, col muso appoggiato sulle zampe anteriori, rivolto verso di noi.

— Perché fa così? — chiesi una sera a Serena, mentre spegnevo la luce sul comodino. — Forse ha paura di essere abbandonato di nuovo — sussurrò lei nel buio. — Vuole essere sicuro che al mattino saremo ancora qui.

Accettai quella spiegazione perché era logica, perché era dolce. Ma dentro di me, un’inquietudine serpeggiava come un’ombra. Castagna non sembrava spaventato. Sembrava attento. I suoi non erano i comportamenti di un cane che cerca conforto, ma quelli di una sentinella che presidia un confine invisibile.

Se Serena si alzava di notte per bere un bicchiere d’acqua, lui si alzava immediatamente, seguendola come un’ombra silenziosa fino alla cucina e scortandola al ritorno.

Se lei tossiva, un colpo di tosse secco che le scuoteva le spalle fragili, Castagna drizzava le orecchie, emettendo un suono basso, interrogativo, fissandola con un’intensità che mi metteva i brividi.

— Smettila di fissarla, bestiaccia — borbottavo io, mezzo scherzando e mezzo no, lanciandogli un pezzetto di formaggio per distrarlo. Lui mangiava il formaggio, ma non distoglieva lo sguardo da lei. Era come se vedesse un’aura, un colore, qualcosa che i miei occhi stanchi di uomo anziano non potevano percepire.

Arrivò febbraio, e con esso una nevicata tardiva che coprì la Pianura Padana sotto mezzo metro di silenzio bianco. Le strade erano lastre di ghiaccio, i rami degli alberi si spezzavano sotto il peso della neve bagnata.

Quella sera, l’atmosfera in casa era stranamente pesante. Serena era andata a letto presto, lamentando un dolore diffuso alle spalle e una stanchezza che le impediva persino di tenere gli occhi aperti.

— Domani chiamo il dottor Bernardi — dissi, rimboccandole le coperte. Lei non protestò nemmeno, il che mi preoccupò più di ogni altra cosa.

Mi addormentai con un sonno agitato, popolato da sogni confusi in cui correvo lungo l’argine del fiume ma non riuscivo mai a raggiungere casa. Fui svegliato di soprassalto. Non era la sveglia. Non era la luce. Era un peso sul petto. Aprii gli occhi nel buio pesto.

Due occhi gialli mi fissavano a pochi centimetri dal viso. Castagna. Era salito sul letto. Non lo aveva mai fatto. Mai.

— Castagna, scendi! — sibilai, cercando di spingerlo via, ancora intontito dal sonno. Ma lui non si mosse. Invece, fece qualcosa che mi gelò il sangue: abbaiò. Non l’abbaio di benvenuto. Non quello per il postino. Era un suono gutturale, disperato, un latrato secco e imperativo proprio in faccia a me.

— Che diavolo ti prende… — Mi girai verso Serena per scusarmi del baccano, per dirle che avrei chiuso il cane in cucina. Allungai la mano verso la sua spalla. — Serena?

Nessuna risposta. Accesi la lampada. La luce giallastra illuminò il suo viso. Era pallida, di un pallore ceruleo che non avevo mai visto. La bocca era semiaperta, il respiro assente. O forse c’era, ma era così flebile da essere impercettibile.

Il terrore mi colpì come un pugno nello stomaco, spazzando via il sonno in un istante. — Serena! Serena! Castagna non smetteva di abbaiare. Ora capivo. Non stava facendo confusione. Stava chiamando i rinforzi. Stava urlando, nel suo linguaggio, che il tempo stava scadendo.

Le mani mi tremavano così tanto che faticai a comporre il numero dell’emergenza.

— Mia moglie… non respira… correte, vi prego! Via dei Pioppi 14… c’è tanta neve… fate presto! L’operatrice mi disse cosa fare. Massaggio cardiaco. Ventilazione. Parole che sembravano appartenere a un film, non alla mia camera da letto con la carta da parati a fiori.

Mentre premevo sul torace di mia moglie, contando a voce alta come un automa, sentivo Castagna che si era spostato. Non abbaiava più. Si era accucciato ai piedi del letto, il muso appoggiato sul materasso, e piangeva. Un uggiolio continuo, straziante, come un bambino che vede rompersi il suo giocattolo preferito.

I minuti che passarono prima dell’arrivo dell’ambulanza furono i più lunghi della mia vita. Sentivo solo il mio respiro affannoso e il lamento del cane.

Quando i paramedici irruppero nella stanza, portando con loro il freddo della notte e l’odore asettico del disinfettante, Castagna si fece da parte. Non ringhiò agli estranei. Si rannicchiò in un angolo, facendosi piccolo piccolo, lasciandoli lavorare. Sapeva. Sapeva che quelle mani sconosciute erano l’unica speranza.

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