Ogni giovedì alle dieci in oncologia: la sedia blu che resta

Mi siedo ogni giovedì alle dieci, in oncologia — anche se io sto bene.

La gente pensa che abbia una visita. In realtà ho trovato qualcosa che pesa più di qualsiasi diagnosi: il silenzio di quella sala d’attesa.

Mi chiamo Ruggero, ho settantanove anni. Niente chemio, niente dialisi: solo un cuore tranquillo e due mani che sanno ancora stringere forte. Due anni fa mi sono perso nei corridoi: cercavo l’ambulatorio di oculistica all’Ospedale Civile, qui a Porto Selva, una città di mare né piccola né grande.

Sulla panca accanto a me c’era una donna giovane, neanche trent’anni, con un foglio rosa in mano. Le dita tremavano, come se quelle parole facessero freddo. Io non dissi niente. Le posai soltanto la mano sulla sua.

«È la prima volta qui?», le chiesi a un certo punto.

Lei annuì e sussurrò: «Dicono… stadio tre.»

Io strinsi piano. «Mia moglie è stata qui. E oggi, nel mio ricordo più bello, balla in salotto con i nipoti.»

Non sorrise. Però il tremito diminuì, come se qualcuno avesse alzato il riscaldamento. Più tardi mi alzai, andai al bar interno a prendere due caffè di macchinetta, li appoggiai tra noi e restammo lì, in silenzio. A volte la speranza non ha bisogno di rumore.

La settimana dopo tornai. Stessa ora, stessa sedia, lo stesso numerino che lampeggiava sopra la porta. Un uomo con un cappellino da baseball fissava il pavimento come se avesse paura di perderlo.

«Giornata dura?», gli chiesi.

Lui rispose senza alzare lo sguardo: «Ho promesso ai miei figli che avrei riparato la bici. E adesso non riesco nemmeno a tenere una chiave inglese.»

Io tirai fuori dalla tasca un rotolino di nastro telato. «A volte basta una mano… se la si fascia nel modo giusto.» Lui mi guardò davvero, e all’improvviso mi porse la catena.

Io non sono un medico, né un prete, né uno psicologo. Ho fatto il meccanico per tutta la vita. Ho imparato che non devi per forza riparare tutto per riuscire comunque a restare.

Qualcuno, una volta, si è seduto per me quando mia moglie è morta. Non mi disse “condoglianze”. Mi disse soltanto: «Lei amava il tuo modo di ridere.» E quel ridere mi ha tenuto sulla riva.

Così sono diventato il vecchio signore della sedia blu.

Arrivo puntuale, porto caramelle alla menta per quel sapore metallico in bocca, e ho tempo. Il tempo, in ospedale, a volte è raro come un raggio di sole a novembre.

Il mese scorso si è seduta accanto a me una donna con il camice da paziente. Tra le braccia aveva un fagottino minuscolo.

«La sua prima visita», sussurrò. «Leucemia. Ho paura di stringerla.»

Io allungai la mano verso la bambina, piccola come un passero. «Così», dissi, guidando le dita della madre. «Non come se fosse fragile. Come se fosse coraggiosa.»

La piccola afferrò il mio dito. Forte.

E tutta la sala diventò silenziosa come la neve.

Ci sono giorni in cui la sala d’attesa respira insieme. Un adolescente legge a bassa voce a un anziano. Una donna canticchia una ninna nanna che tutti conoscono, ma che nessuno osa cantare davvero. Sul tavolino c’è un mucchio di riviste consumate e una scatola con berretti fatti a mano. L’appendiabiti sa di giacche bagnate e sapone.

Qualche settimana fa entrò di corsa un’infermiera. «Signor Ruggero, la sua visita è nell’altra sala d’attesa! È seduto di nuovo nel posto sbagliato.»

Io sbattei le palpebre, guardai l’orologio, feci i conti in silenzio.

Due anni. Centoquattro giovedì.

La sala restò muta, poi la giovane donna del primo giorno si alzò. Ora portava di nuovo i capelli sciolti, e il colore era tornato sul viso. «Lui è seduto esattamente nel posto giusto», disse.

Da allora spesso accanto a me resta un posto libero. Alcuni lo chiamano “la sedia di Ruggero”. Qualcuno ha lasciato un disegno: un bambino con dodici cicatrici e una corona di stelle di feltro. Sotto c’è scritto: «Il tuo posto tranquillo.»

Io non ho grandi parole. Ho solo storie che respirano e mani che tengono.

A volte spiego come fissare un campanello al manubrio quando le dita sono rigide. A volte mostro come rendere la paura più piccola in tre respiri: inspira, espira, resta.

«Perché viene qui?», mi chiede un uomo che preferisce il silenzio.

«Perché quel giorno non sono affondato», rispondo. «Perché qualcuno è rimasto quando era buio.»

Lui annuisce, quasi impercettibile, e io capisco che ha capito.

La gentilezza, per me, non è un attrezzo e non è una soluzione.

La gentilezza non è riparare le persone. È sedersi accanto a loro finché non si ricordano di nuovo della luce.

Questa frase a volte la dico ad alta voce, più spesso la tengo dentro. È come una piccola lampada in tasca.

L’altro giorno tutte e dodici le sedie erano occupate. Sconosciuti si tenevano per mano, vicini parlavano più piano, e da qualche parte un apparecchio faceva bip senza fretta. L’infermiera guardò dentro e sorrise. «Questo angolo ormai lo chiamiamo l’angolo di Ruggero», disse.

Io annuii soltanto. Non devi stringere la fortuna per farla restare.

Io non credo di appartenere a questo posto. Eppure ogni giovedì sono qui, proprio qui. Forse l’appartenenza è meno un luogo e più una scelta. A volte basta riempire lo spazio che il silenzio lascia vuoto.

Se qualcuno mi chiede cosa deve fare, io dico: «Si sieda. Respiri. Tenga una mano che ne ha bisogno.»

Il resto si sistema. Come un numero sul display che prima o poi si accende e dice: adesso. Tocca a te. Non per andare via. Per restare.

E se stai leggendo e pensi di non avere niente da dare:

Porta caramelle alla menta. O una storia. O solo tempo. In questa sala è prezioso tutto ciò che non fa male.

Giovedì, dieci in punto. Oncologia.

Una sedia blu che aspetta.

Io sono qui.

E a volte, piano piano, qualcuno si ricorda della sua luce.

Forse al mondo non servono più risposte,

ma più sedie su cui qualcuno, semplicemente, resta.

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