Ogni giovedì alle dieci in oncologia: la sedia blu che resta

Il giovedì dopo, alle dieci meno cinque, la sedia blu non era vuota. Era “occupata” da un biglietto piegato in quattro, incastrato sotto la gamba come una moneta che non vuole scivolare via. Sopra c’era scritto a penna: *“Se arrivi tardi, resto io.”*

Io mi sedetti lo stesso, accanto. Perché certe cose non si spostano: si condividono. Guardai la porta dell’oncologia come si guarda il mare quando sai che prima o poi cambia vento.

Quel giorno la sala aveva un rumore diverso, un ronzio sottile, come quando la macchina del caffè sta per ingranare. Qualcuno tossiva piano. Qualcuno rideva, ma con una risata prudente, come se avesse paura di disturbare.

Una donna entrò e si fermò sulla soglia, con la mano sulla pancia, non per dolore: per cercare equilibrio. Aveva una sciarpa troppo grande per la stagione, e gli occhi di chi ha dormito poco e pensato troppo.

Mi vide, e per un secondo parve sollevata. Poi l’espressione le cambiò, come quando ti accorgi di aver riconosciuto la persona giusta nel posto sbagliato.

«Lei è… Ruggero, vero?»

Annuii. «Dipende. Se mi cerca l’infermiera, sono quello seduto nel posto sbagliato.»

Lei fece un mezzo sorriso e venne verso di me. Non si sedette subito. Prima guardò la sedia blu, come se fosse un oggetto con un carattere.

«Mi chiamo Daria», disse. «Sono l’infermiera che… insomma, quella che l’ha rimproverata.»

Io alzai le mani, come davanti a un vigile. «Ho già pagato la multa con centoquattro giovedì.»

«Non sono qui per rimproverarla», disse. «Sono qui perché oggi… abbiamo bisogno di lei. O almeno di quello che fa senza fare rumore.»

Io non risposi subito. Perché “bisogno” è una parola che in ospedale pesa più di un martello.

Daria si sedette finalmente, sul bordo della sedia accanto, come si fa quando vuoi essere presente ma non invadente. «C’è un uomo», disse. «Ha cinquantasei anni. Si chiama Lorenzo. È qui per una terapia nuova e… non vuole entrare. Sta fuori, in corridoio. Dice che se mette piede in questa sala, crolla.»

Io guardai il display dei numeri che lampeggiava e pensai a quante volte un numero ha fatto tremare un ginocchio più di una diagnosi. «E lei vuole che io vada a… aggiustarlo?»

Daria scosse la testa. «No. Voglio che lei gli faccia compagnia. Come fa con tutti. Solo che oggi è più difficile, perché è un uomo che è stato sempre quello forte. Ha un figlio grande. E non vuole farsi vedere debole.»

Io mi alzai lentamente. Le ossa fanno un rumore che solo tu senti, come un vecchio cancello. «Porto le caramelle alla menta?»

Daria annuì. «Porti quello che porta sempre. Il resto… lo fanno le mani.»

Lo trovai appoggiato al muro del corridoio, vicino a un distributore d’acqua. Aveva una giacca da lavoro con una macchia di vernice sul gomito e una borsa sportiva troppo pulita per uno che fingeva di essere pronto.

Non mi guardò. Guardava una fuga sul pavimento, come se potesse scappare dentro quella linea.

«Lei è Lorenzo?» chiesi.

Non rispose subito. Poi disse: «Dipende da chi lo chiede.»

«Lo chiede uno che si siede nel posto sbagliato da due anni», dissi. «Quindi non posso farle male. Al massimo le rubo cinque minuti.»

Lui emise un suono che non era risata ma non era nemmeno silenzio. Mi fece un cenno con la testa, come si concede una cosa piccola per non concedere quella grande.

«Non voglio entrare», disse.

«Nemmeno io volevo entrare, la prima volta», risposi. «E guardi un po’: mi sono perso. È stato il mio modo elegante per non aver paura.»

Lorenzo mi guardò finalmente. Aveva occhi stanchi, ma non di sonno: di responsabilità.

«Lei cosa ci fa qui?» chiese.

«Io? Tengo caldo il silenzio», dissi. «Se lo lasci freddo, diventa cattivo.»

Lui abbassò lo sguardo. La gola gli lavorava come una chiave che non gira.

«Mio padre è morto in un ospedale», disse. «Io ero fuori, a fumare. Mi hanno chiamato e mi hanno detto: “È andato via”. Da allora… quando sento questo odore, io…»

Si interruppe, e in quell’interruzione c’era una valanga.

Io mi sedetti per terra, contro il muro, perché a volte abbassarti è il modo più rapido di dire: *non devi stare in piedi per forza*. «Allora non entriamo. Non subito», dissi. «Facciamo una cosa da meccanici. Passo uno: respira. Passo due: respira ancora. Passo tre: resta.»

Lorenzo mi guardò come se gli avessi proposto di riparare un motore con un cucchiaino. Però respirò. E quando respiri davvero, il corpo tradisce la paura.

«Ha una caramella?» chiese all’improvviso, con una voce che sembrava arrendersi a una cosa semplice.

Gliela porsi. La scartò piano, con quelle dita che sembravano capaci di costruire una casa eppure tremavano per una porta.

«Sa cosa fa questa caramella?» dissi. «Ti obbliga a sentire qualcosa che non è solo l’ospedale.»

Lui annuì, e per un momento l’uomo che non voleva entrare era solo un uomo con una caramella alla menta e un padre morto che non poteva più sistemare.

Daria comparve in fondo al corridoio, senza avvicinarsi troppo. Ci guardò come si guardano due persone che stanno facendo qualcosa di fragile ma importante. Poi tornò indietro, lasciandoci il tempo.

Dopo un po’ Lorenzo disse: «Io ho promesso a mio figlio che quest’estate l’avrei portato a pescare. È una promessa stupida, lo so.»

«Non è stupida», dissi. «È una corda. Se la tieni, ti tiene.»

Lorenzo chiuse gli occhi. «E se non ci arrivo?»

Io respirai con lui, piano. «Allora ci arriva qualcun altro con lui. E tu… resti. Anche se restare sembra poco.»

Quelle parole gli fecero male, lo vidi. Però non scappò. Il suo corpo rimase lì. E quando un corpo resta, il cuore ha già iniziato a cambiare idea.

«Facciamo così», dissi. «Entriamo insieme. Non da eroi. Da uomini. Se ti viene da crollare, crolliamo in due. Così non fai rumore.»

Lorenzo si alzò. Io mi alzai con calma, come un vecchio montacarichi che però funziona. Entrammo.

La sala d’attesa, quel giovedì, sembrava aspettare anche noi. E quando Lorenzo vide le sedie, le facce, i cappotti appesi, fece un passo indietro.

Una donna anziana con il foulard in testa lo guardò e disse: «Non è il primo a fare finta di essere forte.»

Lorenzo rimase immobile. Poi si sedette. Sulla sedia libera accanto alla mia. Quella che chiamavano la mia, ma che in realtà non è mai stata mia.

Io sentii un piccolo clic dentro la stanza, come quando una serratura finalmente gira.

Il numero sul display lampeggiò e chiamò un altro nome. Una porta si aprì e si richiuse. La vita continuò con la sua lentezza testarda.

A metà mattina arrivò anche lei: la ragazza del foglio rosa, quella del primo giorno. Non era più una ragazza, non perché fosse diventata vecchia, ma perché aveva attraversato qualcosa che cambia la postura.

Si chiamava Chiara, l’avevo scoperto più tardi, da una busta con il suo nome stampato. Portava una borsa grande, di quelle che sembrano contenere il mondo.

Mi vide e sollevò una mano, come a salutare un parente lontano.

Poi vide Lorenzo e si fermò. Mi guardò, chiedendo silenziosamente: *è uno dei tuoi?*

Io feci un cenno minimo. Lei capì e si sedette dall’altra parte, senza invadere, solo aggiungendo presenza.

Daria passò e ci lasciò una bottiglietta d’acqua vicino. Come se stesse annaffiando una pianta che nessuno deve vedere crescere.

Lorenzo, dopo un po’, disse a voce bassa: «È sempre così pieno?»

Chiara rispose senza guardarlo, con la naturalezza di chi ha imparato a parlare in ospedale come si parla in chiesa. «È pieno di gente che non vuole essere qui. E di gente che, stranamente, decide di esserci.»

Lorenzo deglutì. «E lei… perché ci viene?»

Chiara girò la testa verso di lui e lo guardò davvero. «Perché due anni fa mi tremava la mano e un vecchio signore… non mi ha detto che andava tutto bene. Mi ha solo fatto spazio. Da allora io… quando posso, restituisco.»

Io feci finta di sistemarmi la giacca, perché la gratitudine, quando la senti nominare, ti mette a nudo più di una visita medica.

Lorenzo guardò la sedia blu. «Quindi questa sedia…»

«Non è mia», dissi. «È di chi arriva per ultimo.»

Lui annuì lentamente, come se quella frase gli stesse montando dentro un senso nuovo.

E poi accadde una cosa che non era grande, ma in ospedale le cose grandi quasi sempre si travestono da piccole.

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