Mia moglie è convinta che io abbia un’amante. Ha ragione, in un certo senso. Solo che la mia “amante” è una lastra di marmo freddo al Cimitero Monumentale, settore ovest.
Mi chiamo Valerio, ho 38 anni. Da quando ne avevo 12, ogni sabato mattina alle 9 in punto vado a trovare mio padre. Mai alle 9:05. Sempre alle 9:00. Anche quando la nebbia della pianura ti entrava nelle ossa. Anche con la febbre. Persino la mattina in cui è nata mia figlia, sono passato di lì, con ancora l’odore di disinfettante dell’ospedale addosso.
Non ho mai saltato un sabato.
Mio padre, Ennio, non era un uomo di tante parole. Era un muratore. Uno della vecchia guardia, con le mani grandi come badili e la pelle cotta dal sole e dalla calce. Morì un martedì qualunque, in un cantiere di periferia. Un’impalcatura ceduta. Aveva accettato degli straordinari. “Ancora questa settimana, Valerio,” mi aveva detto la sera prima a cena. “Così quest’estate andiamo al mare. Quello vero, in Puglia, non qui vicino.”
Il mare non l’abbiamo mai visto. Ricordo solo mia madre seduta in cucina, con il cappotto addosso come se avesse freddo dentro, e il silenzio assordante che aveva riempito la casa. Quel giorno, sono dovuto diventare uomo in un pomeriggio.
Da allora, mi sono fatto una promessa: non dimenticare. Mai. Così vado lì. Ma non vado solo per portare un crisantemo. Vado per fare rapporto.
Oggi sono un Architetto. Progetto i palazzi che uomini come mio padre costruiscono con sudore. Guido una grossa berlina aziendale, indosso abiti di sartoria e vivo in un bel quartiere residenziale. Ogni sabato, davanti alla sua foto sbiadita, gli elenco i miei successi. “Ho vinto l’appalto, Papà.” “Ho finito di pagare il mutuo.” “Sono diventato qualcuno.” Forse è orgoglio, o forse solo il disperato bisogno di dirgli che la sua fatica non è andata sprecata. Che ho sconfitto il destino.
Ma tre settimane fa è successo qualcosa di strano. Arrivando alle 9, ho trovato un oggetto appoggiato sulla tomba. Niente fiori. Niente lumini. Era un pezzo di mattone rosso. Un frammento sbeccato, sporco di malta vecchia.
Mi sono infuriato. Chi osava lasciare calcinacci sulla tomba di mio padre? Ho preso quel detrito e l’ho gettato nel cestino con disprezzo. Ma il sabato dopo, c’era un altro mattone. E quello dopo ancora. Qualcuno mi stava prendendo in giro. Qualcuno stava sporcando la mia memoria.
Questo sabato ho deciso di tendergli un agguato. Non sono arrivato alle 9. Sono arrivato alle 8:30. Ho parcheggiato lontano e mi sono nascosto dietro una siepe di cipressi, col bavero alzato contro l’umidità. Ho aspettato.
Alle 8:50, ho sentito dei passi lenti sulla ghiaia. È apparso un anziano. Era il Signor Moretti, un vecchio del quartiere che incrociavo a volte al bar, ma che non avevo mai salutato davvero. Indossava una giacca di fustagno consumata e un berretto piatto. Si è fermato davanti alla tomba di mio padre. Si è tolto il berretto con un rispetto d’altri tempi. Poi, dalla tasca ha tirato fuori un frammento di mattone rosso e lo ha posato sul marmo con una delicatezza infinita. Ha accarezzato la pietra, mormorando qualcosa.
Sono uscito dal mio nascondiglio. “Signor Moretti!” L’anziano ha fatto un salto, ma non è scappato. Mi ha guardato con occhi acquosi ma fermi. “Perché porta spazzatura sulla tomba di mio padre?” gli ho chiesto, con la voce che tremava di rabbia.
Moretti mi ha fissato a lungo. “Tu devi essere Valerio,” ha detto con voce rauca. “Il figlio con le mani pulite.” Sono rimasto impietrito. “Come scusi?”
“Ero il caposquadra di tuo padre, ragazzo. Su quell’ultimo cantiere.”
La mia rabbia si è spenta di colpo, sostituita da un brivido freddo. Ha continuato, guardando la foto di papà. “Quel giorno… Ennio non doveva essere lì sopra. Il turno era finito.” “Lo so,” l’ho interrotto amaramente. “Voleva i soldi per le vacanze.”
“No,” ha risposto Moretti piano, scuotendo la testa. “È quello che ha detto a te per non farti preoccupare. Ma in pausa pranzo, quel giorno, ci aveva fatto vedere un catalogo.” Si è avvicinato di un passo. “Non c’era il mare in quel catalogo, Valerio. C’era una scatola di costruzioni. Un set di ingegneria meccanica, roba costosa e complicata. Diceva che lo guardavi sempre in vetrina.”
Mi è mancato il respiro. Mi ricordavo di quella scatola. Era il mio sogno proibito.
“Ennio mi disse: ‘Moretti, guarda le mani di mio figlio. Sono fini. Sono fatte per tenere la matita, non la cazzuola. Devo fare qualche ora in più per comprargli gli strumenti giusti. Io getto le fondamenta, così lui potrà costruire le torri.'”
Moretti ha indicato il pezzo di mattone sulla tomba. “Questo non è un rifiuto, ragazzo. È un pezzo del muro che stava tirando su quel giorno. Lo porto per dirgli: ‘Le fondamenta reggono, Ennio. Il ragazzo sta in piedi.'”
Sono rimasto lì, in mezzo alla nebbia, nel mio cappotto di cashmere, e mi sono sentito piccolissimo. Per 26 anni ho pensato di dover avere successo per “risarcire” la sua morte. Credevo di essermi fatto da solo. Mi sbagliavo. Non ero un “self-made man”. Ero l’opera d’arte di mio padre. Non aveva dato la vita per una vacanza. L’aveva data perché io non dovessi mai spaccarmi la schiena, ma potessi usare la testa.
Le lacrime sono scese calde, silenziose. Mi sono avvicinato alla tomba. Ho raccolto quel mattone sporco. La superficie ruvida mi ha graffiato il palmo – quel palmo che oggi tocca solo tastiere e progetti. L’ho messo in tasca, vicino al cuore.
“Grazie, Signor Moretti,” ho sussurrato.
Sono le 9:15. Sono ancora seduto sul bordo della tomba. Ma oggi non ho fatto nessun rapporto. Non ho parlato di fatturato o di gloria. Ho accarezzato il marmo e, per la prima volta in 26 anni, non ho detto: “Guarda cosa ho fatto.” Ho detto: “Grazie, Papà. Ce l’abbiamo fatta.”
Spesso pensiamo che il lutto sia imparare a lasciar andare. Ma forse, a volte, è solo capire su quali spalle siamo seduti.
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