Ogni sabato alle nove: il mattone rosso che mi ha cambiato

Se stai leggendo, è perché quel mattone non l’ho buttato via. L’ho portato a casa, in tasca, come una colpa e come una reliquia. E lì, tra il profumo di detersivo e il rumore del frigorifero, è iniziato il vero crollo.

Quando sono uscito dal Cimitero Monumentale, la nebbia mi si appiccicava addosso come un rimprovero. Guardavo l’orologio ogni due passi, per riflesso, come se qualcuno dovesse giudicarmi per quei quindici minuti. Mi faceva quasi ridere: per ventisei anni mi ero comportato da uomo preciso, e invece ero stato solo un bambino puntuale.

In macchina ho acceso il riscaldamento al massimo, ma il freddo non era sulla pelle. Era dentro, in un punto vicino allo sterno, dove avevo nascosto un mattone sporco di malta. Mi sembrava assurdo che una cosa così ruvida potesse pesare più della mia borsa di lavoro.

Il telefono ha vibrato sul sedile.

“Dove sei?” aveva scritto mia moglie. “È sabato. Non mi rispondi da un’ora.”

Ho fissato quelle parole come si fissa una crepa nel muro, sperando che non si allarghi. E invece la crepa era già lì da tempo. Io avevo solo finto di non vederla.

A casa, la luce era accesa in soggiorno. Lei era in piedi vicino alla finestra, con le braccia incrociate e quel modo di respirare corto che conosco bene. Mia figlia, sul tappeto, stava costruendo una torre con dei blocchi di plastica, tutta concentrata e ignara del temporale.

“Sei in ritardo,” ha detto mia moglie, senza alzare la voce. Ed è stato peggio così.

“Ho perso la cognizione del tempo,” ho risposto. Sembrava una scusa debole persino alle mie orecchie.

Lei mi ha guardato in faccia come se mi stesse misurando. Non la giacca, non l’orologio, non la mia sicurezza da professionista. Misurava la distanza.

“Valerio… io non lo so più dove sei, quando esci di casa,” ha sussurrato. “E non parlo di oggi. Parlo di ogni sabato.”

Mi sono tolto il cappotto lentamente, come se togliessi un’armatura. Mi sono sentito nudo, nonostante la camicia impeccabile.

“Sai che vado al cimitero,” ho detto.

“Lo so,” ha risposto lei. “Ma non so cosa fai lì. Non so chi sei, lì.”

La torre di mia figlia è crollata con un tonfo leggero. Lei ha fatto una smorfia e ha ricominciato subito, paziente. Io, invece, non ho ricominciato niente. Mi sono seduto sul divano e ho sentito il mattone premere contro il cuore.

“Vuoi la verità?” ho chiesto. La voce mi è uscita più bassa del solito.

Lei non ha annuito. Ha solo aspettato.

“Ho un’amante,” ho detto, e ho visto i suoi occhi cambiare, diventare lucidi e duri nello stesso istante. “Solo che non è una persona. È una lastra di marmo freddo, settore ovest.”

È rimasta ferma. Poi ha fatto un passo, come se volesse colpirmi e abbracciarmi insieme.

“Non scherzare,” ha detto. Ma non era rabbia. Era paura.

“Non sto scherzando,” ho continuato. “Ogni sabato io vado da mio padre e gli faccio rapporto. Non gli porto solo fiori. Gli porto un resoconto. Come se dovessi convincerlo che… che valeva la pena morire.”

Lei ha portato una mano alla bocca. Non l’avevo mai vista così, disarmata.

“E oggi?” ha chiesto. “Oggi che rapporto gli hai fatto?”

Ho infilato le dita nella tasca interna della giacca e ho tirato fuori il frammento di mattone. L’ho appoggiato sul tavolino, tra il telecomando e una tazza dimenticata. Sembrava un oggetto fuori posto, un pezzo di cantiere in un salotto ordinato.

“Oggi non ho parlato di soldi,” ho detto. “O di successi. O di niente. Ho solo… capito una cosa.”

Lei ha fissato il mattone come se potesse spiegarsi da solo. Poi mi ha guardato.

“Spiegami,” ha detto, e quella parola mi ha trafitto più di qualsiasi accusa.

Così ho raccontato. Ho raccontato di Moretti, del berretto tolto con rispetto, dei passi sulla ghiaia, del catalogo, della scatola di costruzioni, di quelle mani fini che dovevano tenere la matita. Ho raccontato la frase che mi aveva fatto vacillare: “Il figlio con le mani pulite.”

Mia moglie si è seduta accanto a me. Non mi ha toccato subito. Ha ascoltato come si ascolta un dolore che non si conosce, con prudenza.

Quando ho finito, c’è stato un silenzio lungo. Mia figlia, nel frattempo, era riuscita a fare una torre più alta di prima. L’ha guardata con orgoglio e poi ha detto:

“Papà, guarda. Regge.”

Quelle due parole mi hanno colpito come un segno. Ho sentito un nodo salirmi alla gola e non sono riuscito a rispondere subito.

Mia moglie ha preso il mattone con due dita, piano, come se temesse di sporcarsi. Poi ha cambiato presa, l’ha tenuto sul palmo, senza paura.

“Quindi tu ogni sabato… ti giudichi,” ha detto. “E tuo padre… non può nemmeno dirti di smetterla.”

Ho abbassato lo sguardo.

“È che se smetto,” ho ammesso, “ho paura che tutto quello che sono… crolli.”

Lei ha posato il mattone sul tavolino e mi ha preso la mano. Per la prima volta dopo tanto tempo, il suo tocco non era un tentativo di tirarmi fuori a forza. Era un restare.

“Valerio,” ha detto piano, “tu non sei un debito. Sei una persona.”

Sono rimasto lì, con la mano nella sua, e mi sono accorto di una cosa semplice e terribile: io ero stato fedele a un orario, ma non sempre alle persone vive.

La sera, dopo che nostra figlia si è addormentata, mia moglie ha chiesto:

“Posso venire con te, sabato prossimo?”

Ho sentito l’istinto di dire no. Il mio rito, il mio spazio, il mio controllo. Ma mi è venuta in mente la nebbia, la ghiaia, e quell’uomo anziano che portava un mattone come fosse un fiore.

“Sì,” ho risposto. “Se vuoi.”

Lei ha annuito. Poi ha aggiunto:

“E vorrei portare anche lei.”

Non ho risposto subito. Ho guardato la porta della cameretta, come se potessi vedere mia figlia dormire attraverso il legno.

“Non è troppo…?” ho iniziato.

“Non le faremo vedere la morte,” mi ha interrotto mia moglie. “Le faremo vedere l’amore.”

Il giorno dopo sono andato da mia madre. Non lo facevo spesso, e me ne sono vergognato mentre suonavo il campanello. La casa era la stessa di sempre: odore di minestra, tende pesanti, fotografie ingiallite.

Lei mi ha aperto con un sorriso stanco.

“Sei pallido,” ha detto. “Hai lavorato troppo.”

Non ho parlato subito. Mi sono seduto al tavolo della cucina, lo stesso tavolo dove l’avevo vista con il cappotto addosso, anni fa, come se avesse freddo dentro.

“Mamma,” ho detto, “Moretti mi ha raccontato una cosa su papà.”

Lei si è immobilizzata. Le mani, che stavano sistemando una tazza, si sono fermate a metà gesto.

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