Ottanta centesimi sotto la pioggia: la lezione che mi riportò alla famiglia

Quella stessa pioggia sottile, che a Milano sembra non finire mai, mi seguì mentre mi allontanavo dal chiosco con il cuore più pesante del cappotto.

Avevo appena chiuso la chiamata con mia moglie, e per la prima volta dopo anni sentivo che stavo scegliendo qualcosa che non potevo “comprare”. Non era più una questione di fiori, ma di presenza.

Attraversai la strada evitando una pozzanghera che rifletteva un semaforo rosso, come un avvertimento. La sigaretta spenta in tasca mi sembrò un simbolo stupido: tutto quello che avevo acceso nella vita per non sentire, e tutto quello che avevo spento per non fermarmi. Tirai fuori le chiavi dell’auto, e mi misi in marcia.

Mia moglie rispose al secondo squillo quando la richiamai. Si sentiva il rumore dei bambini in sottofondo, la televisione, una cucina viva, vera.

— Sei sicuro? — chiese lei, e nella sua voce non c’era sarcasmo, solo sorpresa.

— Sì. Sono sicuro. — Guardai il traffico, i fari, la fretta. — Prepara i bambini. Ti vengo a prendere. E poi andiamo da mia madre.

Arrivai sotto casa in una manciata di minuti che mi parvero un’ora. Mia moglie scese con i bambini infagottati, cappelli calati sugli occhi, zaini buttati male in macchina come se la vita fosse sempre un trasloco improvviso. Il più piccolo sbuffò.

— Papà, ma dove andiamo? Avevi detto che stasera non c’eri.

— Appunto. — Mi voltai appena, cercando di sorridere. — Stasera ci sono.

Mia moglie si sedette accanto a me e notò i fiori. Erano belli, costosi, perfetti, quasi offensivi nella loro perfezione. Lei non disse nulla, ma il suo sguardo mi fece capire che aveva già intuito tutto: che quei fiori non erano più un biglietto per la pace, ma un promemoria di quanto tempo avevamo perso.

Partimmo nel caos dell’ora di punta. Il parabrezza era una pellicola d’acqua, e i tergicristalli sembravano due metronomi impazziti che scandivano la mia ansia. La città era un organismo nervoso, e io mi sentivo per la prima volta un corpo estraneo: uno che rallenta.

Fu all’altezza di un incrocio vicino alla metropolitana che lo vidi.

Valerio.

Stava sotto una pensilina, fradicio, con quel mazzo enorme stretto come un salvagente. Non correva più; guardava la strada come si guarda una porta chiusa, con la disperazione silenziosa di chi è arrivato tardi quando non poteva permetterselo.

Frenai d’istinto, accostando. Mia moglie mi guardò, confusa.

— Che succede?

— È lui. — Indicai fuori, e le bastò un attimo per capire.

Abbassai il finestrino. L’aria gelida entrò nell’abitacolo come una sberla.

— Ehi! Valerio! — lo chiamai, alzando la voce sopra il rumore della pioggia.

Lui si voltò di scatto. Per un secondo nei suoi occhi vidi paura, come se pensasse di aver fatto qualcosa di sbagliato, come se la bontà dovesse sempre presentare una fattura da pagare.

— Signore… — mormorò, avvicinandosi. — Io… io sto andando alla casa di riposo, ma… c’è stato un blocco, hanno fermato la linea, e adesso… adesso è tardi.

Guardò l’orologio della stazione, e in quel gesto c’era tutta la sua adolescenza che si sbriciolava contro una regola di orario. “Le visite finiscono presto.” Lo aveva detto. E lui stava perdendo l’unica cosa che contava.

— Sali. — aprii la portiera posteriore. — Ti porto io.

Valerio esitò, guardando mia moglie e i bambini, come se avesse paura di sporcarci con la sua urgenza. Mia moglie però si sporse appena e gli fece un cenno semplice, materno.

— Dai, vieni. Non stai disturbando nessuno.

Lui salì, stringendo il mazzo, sedendosi sul bordo come se non osasse occupare spazio. I bambini lo fissarono, curiosi, e per la prima volta quella sera il traffico mi sembrò meno importante di quel silenzio.

— È per tua nonna, vero? — chiese mia moglie piano.

Valerio annuì, e la sua voce uscì più rotta di prima.

— Oggi compie ottant’anni. Io… non volevo arrivare così.

Guidai verso la periferia, dentro una Milano che cambiava faccia a ogni chilometro: meno vetrine, più palazzi grigi, meno luci, più buio vero. Valerio teneva gli occhi fissi sui fiori, come se potesse proteggerli dalla realtà con la forza delle dita.

— Come si chiama tua nonna? — domandai, cercando di non far tremare la voce.

— Rosa. — rispose lui. E poi, quasi vergognandosi di quella coincidenza: — Si chiama davvero così.

Mi si strinse lo stomaco. Una rosa per Rosa. Un gesto piccolo e gigantesco insieme.

Arrivammo davanti alla casa di riposo quando il cielo era diventato un coperchio nero. L’edificio era illuminato da luci fredde, pulite, e aveva quell’odore invisibile che hanno i luoghi dove si aspetta: di disinfettante e tempo sospeso. Valerio scese con uno scatto, ma io gli posai una mano sulla spalla.

— Aspetta. Ci vengo anch’io.

Mia moglie non protestò. Mi guardò soltanto con uno sguardo che non dimenticherò: come se mi vedesse tornare da un viaggio lunghissimo senza essermi mai mosso.

Entrammo nell’atrio, e una donna dietro un vetro alzò gli occhi dal registro. I minuti erano già scaduti, lo vedevi dal modo in cui stringeva le labbra prima ancora di parlare.

— Le visite sono terminate alle diciannove. — disse, senza cattiveria, ma con quella stanchezza di chi ripete la stessa frase cento volte al giorno.

Valerio impallidì, e per un secondo mi sembrò che tutto il suo coraggio crollasse lì, sul pavimento lucido. Avvicinai il volto al vetro, non per imporre, ma per chiedere come si chiede una cosa che conta davvero.

— Signora, lo so. Siamo in ritardo. Ma oggi è il compleanno di sua nonna. — indicai il mazzo tra le braccia del ragazzo. — Cinque minuti. Solo per consegnarle i fiori. Poi ce ne andiamo.

La donna guardò i bambini dietro di me, guardò mia moglie, guardò Valerio. E in quel silenzio breve vidi una battaglia: tra la regola e l’umano.

— Cinque minuti. — disse infine, aprendo la porta. — Ma solo cinque. E niente chiasso.

Valerio sussurrò un “grazie” che sembrò una preghiera. Seguimmo un corridoio lungo, con porte tutte uguali e luci al neon che appiattivano i volti. Ogni tanto, da una stanza, arrivava una voce che chiamava un nome, o un televisore acceso troppo alto, o una risata che sembrava fuori posto.

La stanza di Rosa era in fondo. Valerio rallentò, come se ogni passo fosse un avvicinarsi a qualcosa che fa paura. Io rimasi un passo indietro, lasciandogli spazio, mentre mia moglie teneva i bambini vicini, come per insegnare loro senza dire nulla.

Valerio bussò piano. Poi entrò.

Dentro c’era un caldo diverso, stanco. Una donna anziana sedeva su una poltrona vicino alla finestra, le mani poggiate sulle ginocchia come due cose dimenticate. Aveva i capelli bianchi raccolti male, e lo sguardo perso oltre il vetro, oltre la pioggia, oltre tutto.

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