Stavo guidando piano lungo una via del centro di Bologna, diretta in un negozio di bricolage per comprare materiale per un lavoretto di scuola delle bambine, quando lo vidi.
Attraverso le grandi vetrate di una caffetteria moderna, di quelle con le sedie in legno chiaro e le lampade appese, riconobbi mio marito, Luca, seduto a un tavolino vicino alla finestra. Davanti a lui, una donna che non era sua madre, non era sua sorella, e non era nessuna delle amiche che avevo visto alle nostre cene di casa.
Le stava tenendo la mano.
È strano come funziona lo shock. Il cervello registra ogni dettaglio in modo esagerato, ma nello stesso tempo rifiuta di crederci.
Ricordo le sue unghie curate, corte, smaltate di rosa nude, molto professionale. Ricordo il corpo di lui, inclinato in avanti, concentrato su di lei, e quel sorriso sciocco che gli avevo visto undici anni prima, quando mi aveva chiesto di sposarlo sul lago di Garda.
Parcheggiai la mia utilitaria grigia in una via laterale, mi fermai lì dentro per circa quaranta-cinque secondi a fare un crollo emotivo completo, e poi feci quello che ogni donna apparentemente razionale fa in questi casi: entrai in quel bar come se fosse casa mia.
Prima di tutto, però, lasci che vi racconti chi ero quel giovedì pomeriggio, prima dell’apocalisse.
Mi chiamo Elena Rinaldi, ho trentacinque anni, sono una grafica freelance, lavoro da casa, e sono mamma di due bambine meravigliose: Chiara, otto anni, e Sofia, cinque. E, apparentemente, sono anche un’idiota completa per aver creduto alle scuse di mio marito sugli straordinari in ufficio degli ultimi sei mesi.
Viviamo in un appartamento luminoso in una zona residenziale tranquilla appena fuori Bologna, che abbiamo ristrutturato insieme. In teoria insieme: io ho scelto tutti i colori delle pareti e discusso con i muratori, mentre Luca «doveva lavorare».
Settembre a Bologna è di solito perfetto: luce dorata, aria fresca, e l’odore di caffè e dolci che esce da ogni bar. Avrebbe dovuto essere il mio periodo preferito dell’anno. Invece è diventato il mese in cui ho scoperto che il mio matrimonio era una recita.
Luca mi vide quando ero a circa tre metri dal loro tavolo. La sua faccia attraversò almeno cinque espressioni: confusione, riconoscimento, terrore, calcolo, e infine quella via di mezzo tra cervo abbagliato dai fari e uomo in procinto di avere un infarto.
La donna – avrei scoperto dopo che si chiamava Miriam Belli, perché ovviamente doveva avere un nome elegante – si girò verso di me, attirata dallo sguardo improvvisamente terrorizzato di lui.
Aveva dei capelli castano ramato perfetti, una di quelle giacche eleganti che capisci al volo che non vengono certo comprate al mercato, e quel trucco naturale che dice «mi sono svegliata così» ma in realtà richiede almeno quaranta minuti davanti allo specchio.
«Chi è?» chiese a Luca, senza aggressività, davvero solo confusa, come se avesse trovato una sconosciuta a rovinare il loro momento romantico.
Lo anticipai io.
«Sono Elena, sua moglie da undici anni, madre delle sue due figlie… e tu, suppongo, sei il motivo per cui lavora fino a tardi ogni martedì e giovedì da sei mesi.»
Sei mesi. Il numero mi uscì dalla bocca prima ancora che il cervello finisse il conteggio, ma era esatto. Sei mesi.
Sei mesi da quando aveva iniziato a perdere le partite di calcio di Chiara. Sei mesi da quando non mi chiedeva più come stavo. Sei mesi da quando era comparso un profumo nuovo sull’armadio, qualcosa di costoso preso in una profumeria del centro, al posto del suo solito dopobarba economico del supermercato.
La faccia di Miriam perse colore. Completamente. Sembrava una persona che si fosse appena accorta di avere sbagliato a compilare la dichiarazione dei redditi per dieci anni di fila.
«Aspetta… moglie?» balbettò. «Lui mi ha detto che era divorziato. Che vi eravate lasciati in modo sereno due anni fa.»
Ah, questa era buona. Era davvero buona.
«Divorziato?» scoppiai a ridere. Una risata un po’ isterica, ma lasciamo perdere. «È per questo che vive ancora in casa nostra? Che dorme ancora nel nostro letto? Che accompagna le nostre figlie a scuola ogni mattina quando ho le riunioni con i clienti?»
Luca apriva e chiudeva la bocca come un pesce fuori dall’acqua. Nessun suono. Probabilmente perché non esistono parole per aggiustare un disastro di queste dimensioni.
Miriam si alzò così in fretta che la sedia stridette sul pavimento. Il bar, pieno di gente nel tardo pomeriggio, si zittì di colpo. Gli italiani adorano il dramma nei bar quasi quanto il caffè.
Lei afferrò la sua borsa chiara, evidentemente di marca, e fissò Luca con disgusto puro.
«Mi avevi detto che eri pronto per qualcosa di serio,» disse con la voce che tremava. «Che il divorzio ti aveva liberato per poter costruire finalmente una storia vera con qualcuno che ti capiva. Io ho lasciato un uomo per bene per te. Uno che voleva davvero un futuro con me.»
Se ne andò.
Io avrei dovuto seguirla. Avrei dovuto lasciare Luca lì, con il suo caffè e le sue bugie. Ma non lo feci. Mi sedetti sulla sedia che lei aveva appena lasciato. Era ancora tiepida, cosa che mi sembrò, per qualche motivo, la cosa più offensiva di tutta la scena, e guardai mio marito.
«Undici anni,» dissi piano. Troppo piano. Quel tipo di voce calma che viene prima dell’uragano. «Due figlie, un mutuo, dichiarazioni dei redditi congiunte… e tu le hai detto che eravamo divorziati da due anni?»
Quello che avrei scoperto nelle successive settantadue ore era molto peggio di una «semplice» storia parallela.
Luca non stava solo tradendo. Si stava allenando per una nuova vita.
Aveva affittato un bilocale in un quartiere nuovo e alla moda, dall’altra parte della città, in un palazzo moderno con vetrate grandi e mattoni a vista. Affitto: circa milleduecento euro al mese.
Aveva iniziato a spostare soldi dal nostro conto cointestato: cinquecento euro qui, settecento là. «Spese di lavoro», diceva ogni volta che gli chiedevo spiegazioni. In sei mesi aveva trasferito circa diciottomila euro su un conto intestato solo a lui, di cui io non sapevo nemmeno l’esistenza.
E Miriam? Non era la prima.
Ce n’era stata un’altra prima di lei, una progettista di siti web di nome Paola, conosciuta tramite la sua azienda. Erano stati insieme per tre mesi, finché lei non aveva scoperto di me attraverso un sito professionale online, dove lui si era dimenticato di togliere la parola «sposato» dal profilo.
Paola mi aveva scritto su un social: messaggi, foto, perfino un breve video in cui Luca, durante un aperitivo, diceva che io ero «praticamente una coinquilina» e che il nostro matrimonio era «morto da anni».
Morto da anni? Interessante, considerando che avevamo fatto l’amore quattro giorni prima che Paola mi mandasse quei messaggi. Considerando che sei settimane prima avevo organizzato la sua festa di compleanno, invitato tutti i colleghi, preparato la sua torta preferita al limone e comprato a rate quella tastiera meccanica che desiderava da mesi.
Ma sapete qual è la cosa che mi ha fatto più male di tutte? Le mie figlie.
Chiara aveva visto Luca con Miriam al centro commerciale tre settimane prima, mentre era lì con la mamma di un’amichetta per un compleanno.
«Papà, chi era quella signora con te?» gli aveva chiesto.
E lui le aveva detto che era il loro «piccolo segreto», perché era una collega e «la mamma non capirebbe».
Aveva manipolato una bambina di otto anni per coprire il suo tradimento.
Fu lì che smisi di essere triste e cominciai a diventare strategica.
Quella sera di giovedì recitai la commedia della normalità. Luca tornò a casa alle 18:30, dopo aver passato il pomeriggio con la sua amante. Io preparai la cena come una perfetta moglie degli anni ’50 in crisi nervosa: salmone al forno, verdure, pane caldo.
Le bambine raccontavano la loro giornata. Sofia ci mostrò un disegno della nostra famiglia – tempismo perfetto, vero?
Luca mi osservava di sottecchi, aspettava l’esplosione. Io sorrisi per tutta la cena. Non dissi una parola del bar, di Miriam, di Paola, dell’appartamento segreto, né del fatto che la nostra primogenita stava girando da settimane con un segreto tossico nello stomaco.
Dopo aver messo a letto le bambine, aver letto a Sofia un libro illustrato prima di dormire mentre dentro di me morivo, entrai in camera da letto. Luca era seduto sul letto, fingeva di leggere una newsletter di lavoro sul tablet.
«Allora,» dissi con tono quasi allegro, «per quanto tempo pensavi di tenere l’appartamento dall’altra parte della città prima di lasciarci ufficialmente?»
Il tablet gli scivolò di mano. Lo sentii battere sul pavimento di legno. Poco male: quel pavimento ci era costato tre weekend di lavoro insieme.
«Elena, posso spiegare.»
«Puoi spiegare perché dal nostro conto sono spariti diciottomila euro?»
La sua faccia fece quell’espressione tipica di chi si sente colto con le mani nel sacco: micro-espressioni velocissime, gli occhi che si muovono, alla ricerca di una bugia che sembri ancora credibile.
«Erano investimenti per il lavoro.»
«Riprova. Ho chiamato la banca. I bonifici sono finiti su un conto intestato solo a te. Vuoi indovinare cos’altro ho trovato?»
Presi il telefono e gli mostrai gli screenshot che Paola mi aveva mandato mesi prima, messaggi che avevo ignorato perché non ero pronta a vedere la verità.
«La tua ex, Paola, è stata molto precisa. Ha documentato tutto. Anche quando hai detto che io ero solo un peso morto che ti impediva di vivere la tua vita “autentica”.»
Luca era bravo con il linguaggio da psicologo improvvisato. Parlava di «autenticità», di «crescita personale», di «bisogni emotivi». Si era evidentemente raccontato che tradire fosse un modo per «ritrovare se stesso».
«Non volevo dire…» iniziò.
«Hai coinvolto Chiara.» La mia voce uscì fredda. Fredda come il vento d’inverno sugli Appennini. «Hai fatto in modo che nostra figlia mentisse a me. Ha otto anni. Ti ha chiesto chi fosse quella donna con te e tu le hai detto che era un segreto.»
Quella lo colpì davvero. Vidi la vergogna attraversargli gli occhi per circa due secondi, prima che subentrasse la difesa.
«Non volevo sconvolgere la loro vita finché non avevo chiarito le cose.»
«Finché non avevi chiarito le cose?»
Ecco, in quel momento arrivò l’esplosione che lui aveva tanto temuto.
«Sono sei mesi che “chiarisci le cose”, mentre io cresco le tue figlie, gestisco casa tua e recito la parte della povera moglie ignara nel teatrino del tuo “ritrovare te stesso”!»
C’è una cosa divertente nei traditori: pensano sempre di essere i primi ad aver inventato la storia parallela.
Luca sembrava davvero sorpreso che io fossi arrabbiata. Come se fossi io quella poco comprensiva.
La mattina dopo, venerdì, feci quello che molte donne razionali fanno quando capiscono che il vaso è ormai rotto.
Andai a una lezione di yoga, respirai profondamente per un’ora fingendo di essere serena, e poi chiamai la più temuta avvocata divorzista della città.
Si chiamava Serena Cavalli. Studio elegante in un palazzo di uffici in centro, con vista sui tetti rossi di Bologna e la reputazione di far piangere i coniugi infedeli alle udienze. Solo per la prima consulenza chiedeva una cifra che mi fece deglutire forte, ma ne valse ogni centesimo.
«Allora,» disse Serena, prendendo appunti su un tablet, «tuo marito ha una relazione stabile, ha sottratto soldi dal conto comune e ha coinvolto vostra figlia in un segreto legato al tradimento.»
Annuii.
«In Italia il divorzio è una procedura civile, non serve dimostrare la colpa per sciogliere il matrimonio, ma questo comportamento può pesare molto sull’affidamento delle bambine, sul mantenimento e sulla divisione dei beni.»
Mi spiegò tutto con calma, mentre io sorseggiavo il suo caffè preparato alla perfezione: come funzionano le richieste di affidamento, le modalità di visita, cosa significa «dissipazione del patrimonio comune», quali documenti servono davvero.
Le brillavano gli occhi. Si vedeva che casi come il mio le davano una strana soddisfazione professionale.
«Un’ultima cosa,» dissi prima di andarmene. «Voglio che sia tutto documentato. Ogni bugia che ha raccontato alle sue amanti, ogni euro spostato dal conto, ogni volta che ha manipolato le nostre figlie. Non voglio che un giorno lui racconti in giro che “ci siamo lasciati di comune accordo”. Voglio che ci siano fatti, non storie.»
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