Pensava di prendere un semplice caffè, ma quel giovedì ha scoperto che il suo matrimonio era solo una recita

Nel frattempo, le visite supervisionate iniziarono.

Una psicologa del servizio famigliare, la dottoressa Marta, veniva a casa nostra il sabato mattina. Si sedeva sul divano, prendeva appunti, lasciava che Luca e le bambine parlassero, giocassero, si muovessero in quello spazio strano e controllato.

Alla seconda visita, Chiara trovò il coraggio di dire quello che aveva in testa.

«Papà,» disse all’improvviso, mentre stavano facendo un puzzle sul tappeto, «perché hai mentito a me e alla mamma?»

Lui alzò la testa.

«Tesoro, io… ho fatto degli errori,» farfugliò. «A volte gli adulti…»

«Ma tu mi hai fatto mentire,» insistette lei. «Mi hai detto che era il nostro segreto. E io la notte mi giravo nel letto e mi veniva il mal di pancia. I segreti non dovrebbero far venire il mal di pancia.»

La psicologa scriveva, in silenzio.

Sofia, invece, lo trattava come si tratta un conoscente gentile:

«Grazie per il succo. Posso andare a giocare nella mia stanza?»

Non c’era odio nei loro gesti. Solo distanza.

Arrivò dicembre.

Natale si avvicinava, con le lucine nelle vie del centro, i mercatini, le canzoni ovunque.

Luca passò le feste da solo in un piccolo appartamento in affitto in periferia. Io e le bambine, invece, andammo a pranzo dai miei genitori, e un pomeriggio anche da Carla, la nonna paterna.

Perché sì, Carla alla fine aveva richiamato.

«Non avevo capito quanto fosse grave,» mi aveva detto con la voce rotta. «Quando mi hai parlato dei soldi, delle bambine… mi sono sentita male. Posso continuare a vedere le nipoti?»

«Certo,» le avevo risposto. «Le bambine non hanno colpa di niente. E nemmeno tu.] Basta che qui nessuno mi dica che devo capire il “momento difficile” di tuo figlio.»

A Natale, Carla abbracciò Chiara e Sofia con un misto di gioia e rimorso. Con me fu gentile, quasi timida. Per la prima volta, mi trattò davvero come una donna che stava reggendo il peso di una famiglia, non solo come «la moglie di Luca».

La mia vita, nel frattempo, cominciava a cambiare forma.

Alcuni clienti nuovi arrivarono grazie al passaparola: un negozio di abbigliamento, un piccolo ristorante, una scuola di musica che voleva rifare il logo. Misi ordine nelle finanze, con l’aiuto di una consulente che mi spiegò con calma come organizzarmi da sola. Non era magia, ma pian piano riuscivo a respirare.

E poi c’era Riccardo.

Lo conoscevo di vista da due anni: insegnava educazione fisica nella scuola di Sofia. Lo incontravo alle riunioni, ai saggi, alle feste di fine anno. Sempre sorridente, sempre gentile con i bambini, con quella pazienza che a me mancava dopo la terza litigata su chi avesse preso i pennarelli.

Un giorno, a gennaio, lo incrociai al parco mentre portavo le bambine a giocare.

«Ciao Elena,» disse, un po impacciato. «Ho saputo che stai attraversando un periodo… complicato. Se un giorno ti va un caffè, solo per parlare, io ci sono.»

All’inizio dissi di no.

Poi, qualche settimana dopo, quando le cose con Luca erano ormai incanalate in una strada ben precisa e io cominciavo a sentirmi meno in colpa a pensare anche a me stessa, dissi sì.

Fu solo un caffè. Poi un altro. Poi una passeggiata. Nessun colpo di fulmine teatrale, nessun «ti amo» dopo due settimane. Solo due persone che parlavano, ridevano, si raccontavano i pezzi di vita che l’altro non conosceva.

«Ti vedo diversa da quando ti ho conosciuta a scuola,» mi disse una volta. «Più presente. Prima sembravi sempre un po altrove, come se stessi tenendo in piedi mille cose contemporaneamente.»

«È ciò che succede,» risposi, «quando smetti di vivere nella bugia di qualcun altro.»

La data dell’udienza per la separazione definitiva fu fissata a fine gennaio.

Serena era tranquilla.

«Con tutto quello che abbiamo raccolto,» diceva, «la cosa più probabile è che la controparte cerchi un accordo prima di entrare in aula. A lui conviene firmare, a te conviene avere una decisione chiara e chiudere.»

Avevamo:

  • la perizia di Marco, con i settantatremila euro sottratti;
  • le dichiarazioni di Paola e Miriam;
  • le prove dei conti nascosti;
  • le valutazioni del servizio sulle visite con le bambine;
  • l’evidenza del fatto che lui aveva pianificato un trasferimento senza averne mai parlato ufficialmente.

Il giorno dell’udienza arrivò.

Freddo, cielo grigio, il tipo di giornata italiana d’inverno in cui sembri avere perennemente bisogno di un altro caffè.

Arrivammo al Tribunale. Io, con una cartellina in mano e le dita gelate. Serena, con la sua solita calma armata.

Neanche entrammo in aula subito.

L’avvocato di Luca ci fermò nel corridoio.

«Possiamo parlare?» chiese, guardando Serena.

Si chiusero in una stanzetta laterale, una di quelle salette con tavolo rettangolare e sedie rigide. Io rimasi seduta in un angolo, ad ascoltare.

In sostanza, erano pronti a cedere.

Proposero che la casa restasse a me, con assegnazione ufficiale come domicilio delle bambine. Affidamento condiviso, ma collocamento prevalente presso di me e calendario di visite stabilito, senza più supervisione dopo un certo periodo e un percorso psicologico completato da Luca.

Per il denaro, lui si impegnava a restituire i settantatremila euro sottratti in più anni, a contribuire alle spese straordinarie per le figlie e a versare un assegno mensile di mantenimento.

I risparmi comuni rimasti sarebbero stati divisi in modo più favorevole a me, vista la dissipazione che aveva compiuto. I suoi fondi personali e certi piccoli investimenti sarebbero stati intaccati per compensare.

«Non è perfetto,» mi sussurrò Serena, «ma è molto buono. E soprattutto ti evita un processo lungo e logorante. Hai la casa, la stabilità per le bambine e un impegno chiaro sui soldi. Io ti direi di firmare.»

Guardai le carte. Pensai alle notti sveglia, ai conti fatti sul quaderno della spesa, all’ansia delle bollette. Pensai alle bambine, che avevano bisogno di vedere che questa storia finiva, non che trascinavamo tutto per anni.

«Firmo,» dissi.

Luca entrò qualche minuto dopo, con il suo avvocato.

Quando gli misero il foglio davanti, la mano gli tremava.

Firma qui. Firma qui. Firma qui.

Fece scorrere la penna sui righi, come se ogni tratto fosse un pezzo del suo castello di sabbia che crollava definitivamente.

Quando uscimmo dal Tribunale, l’aria era ancora fredda, ma io mi sentivo leggera come non succedeva da anni.

Stavo per salire in macchina quando lo sentii chiamarmi.

«Elena.»

Mi voltai.

Serena fece un mezzo passo verso di me, come per proteggermi, ma io le feci cenno che andava bene.

Luca si avvicinò di qualche passo, senza osare troppo.

«Mi dispiace,» disse. «Per tutto quello che ho fatto. So che non basta, ma…»

«Hai ragione,» lo interruppi. «Non basta.»

Si morse il labbro, come faceva quando era giovane e non sapeva cosa dire, ma questa volta non provai nessuna tenerezza.

«Quello che forse puoi fare,» continuai, «è capire perché hai distrutto la tua famiglia per qualcosa che non era nemmeno reale. Un’idea di te stesso, forse. O il gusto di sentirti furbo. Questo è lavoro tuo, con uno psicologo, non mio.»

Lui annuì piano.

«Le bambine sono persone splendide,» aggiunsi. «Se un giorno, quando saranno più grandi, decideranno di darti una seconda possibilità, sarà perché avrai dimostrato nel tempo di meritartela. Non perché tu la pretendi. Il diritto di pretendere, da loro, l’hai perso il giorno in cui hai fatto di Chiara la tua complice.»

Non aspettai una risposta. Mi girai, salii in macchina e chiusi la porta. Quello era l’ultimo atto del nostro matrimonio. Il resto era solo amministrazione.

I mesi successivi furono una lenta ricostruzione.

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