Pensavano di cancellare mio fratello bruciando la sua moto, ma quel cortile ha visto nascere qualcos’altro

Hanno bruciato la moto di mio fratello mentre io ero al suo funerale.
Dissero che “un morto non ha bisogno di parcheggio” e che quella vecchia moto dava una brutta immagine al condominio.

Quando sono tornato dal cimitero, dopo aver salutato per l’ultima volta Luca – mio fratello minore, che aveva fatto anni di missioni all’estero con l’esercito e poi era morto di tumore a 55 anni – ho trovato solo un ammasso di ferro nero e cromature sciolte nel posto auto che lui pagava ogni mese da anni.

La sua moto d’epoca, una turistica del ’75 rimessa a nuovo con le sue mani, non esisteva più. Solo odore di bruciato e metallo deformato.

L’amministratore, il geometra Rinaldi, era lì in cortile con le braccia conserte e una busta in mano. Aveva quella mezza smorfia che chiamava sorriso.

«Ah, finalmente è tornato, signor Paolo», disse, porgendomi una raccomandata. «Qui c’è la comunicazione ufficiale. Comunque, quella moto… era ora che sparisse. Gente come vostro fratello porta solo problemi. E altra gente… come lui.»

Alcuni condomini guardavano dalle finestre, nascosti dietro le tende, come se fosse uno spettacolo gratuito.

Luca aveva vissuto in quell’appartamento per otto anni. Non aveva mai saltato un affitto. A chiunque chiedesse aiuto, lui c’era: cambiava una gomma, portava le buste della spesa alla signora del quarto piano, accompagnava la vicina in pronto soccorso quando si sentiva male. Ma bastarono poche ore dalla sua morte perché l’unica cosa che gli era rimasta davvero nel cuore – la moto che avevamo restaurato insieme al suo rientro dalle missioni – venisse ridotta in cenere.

«Era un pugno in un occhio», disse il geometra, indicando il rottame fumante. «Una moto così vecchia, tutta cromata… questo non è un garage di un club di motociclisti. Un uomo morto non ha bisogno di una moto.»

Mio fratello era morto da sei ore. Sei.
In sei ore avevano già cancellato il suo orgoglio più grande.

«Quella moto valeva più di trentamila euro», risposi, con una calma che non so ancora da dove sia uscita. «E non solo in soldi.»

Rinaldi fece spallucce. «Lo dimostri. Per quanto mi riguarda, sarà stato qualche vandalo. Peccato che in quell’angolo del cortile non ci siano telecamere…»

Proprio l’angolo dove lui aveva assegnato a Luca il posto auto, nonostante ce ne fossero di più vicini all’ingresso. Luca doveva fare ogni giorno cento metri in più con le gambe rovinate da un vecchio incidente in servizio, perché l’amministratore non voleva “quel tipo di immagine” vicino al portone.

Mi inginocchiai accanto ai resti della moto. Il metallo era ancora caldo, deformato, irriconoscibile. Luca aveva passato due anni a rimettere in sesto quella vecchia signora del ’75. Ogni vite, ogni guarnizione, ogni pezzo lucidato era stato una seduta di terapia dopo il rientro.

Quando gli incubi lo svegliavano di notte, scendeva in garage a lavorare sulla moto.
Quando il dolore alle ossa non gli dava tregua, prendeva uno straccio e lucidava il serbatoio finché non ci vedeva riflessa la sua faccia intera e non solo le cicatrici.

«Ha quarantotto ore per togliere via questo schifo», continuò Rinaldi. «E anche per andarsene dall’appartamento. L’intestatario del contratto era vostro fratello. Lei è solo un ospite. Senza diritti.»

«Sono suo fratello. Ho dei diritti anch’io.»

«Lei non ha niente. Niente contratto, niente fratello, niente posto auto.»
Quella frase la disse ridendo, come fosse una battuta riuscita bene.

La signora Rosa del 3B guardava dalla porta socchiusa. Portava lasagne e minestrine a Luca quando faceva la chemioterapia.
Il signor Ahmed del 2A era sul balcone: Luca gli aveva aggiustato la macchina gratis il mese prima.
Sara, l’infermiera del piano terra, sbirciava tra le persiane: Luca l’accompagnava spesso alla macchina quando tornava dal turno di notte.

Nessuno disse una parola.

«Lo ripeto», ribadì Rinaldi, sventolando la raccomandata. «Se non pulisce tutto, faccio portare via i resti e mando il conto all’eredità. Ha tempo fino a dopodomani.»

Rimasi lì fino a che il cielo non diventò nero.
La gente rientrava, parcheggiava, fingeva di non vedermi.
Solo verso mezzanotte sentii dei passi lenti alle mie spalle.

Era la signora Rosa, con lo scialle sulle spalle.

«Mi dispiace tanto, Paolo», sussurrò. «Il geometra ha minacciato tutti. Ha detto che se qualcuno si metteva dalla vostra parte, avrebbe trovato un motivo per non rinnovare il contratto. E molti qui… non possono permettersi di cambiare casa.»

«Ha visto chi l’ha fatto?» chiesi, senza alzarmi.

Lei annuì, gli occhi lucidi. «Il nipote del geometra. Quel ragazzo, Simone. Ha preso la benzina dal locale degli attrezzi. Rinaldi guardava dalla finestra del suo ufficio.»

«È disposta a dirlo alla polizia?»

Scosse la testa subito. «Ho due nipotini che vivono con me. Se ci buttano fuori, dove andiamo? Non posso rischiare.»

Restò con me qualche minuto in silenzio, poi tornò a casa, lasciandomi solo con il sogno bruciato di mio fratello.

Quella notte dormii – o provai a farlo – sul divano di Luca, in mezzo ai suoi libri e alle sue cose.
Aprii l’armadio: c’era ancora la divisa ben piegata, il cappotto che usava in inverno per andare alle visite in ospedale, il casco della moto appeso al suo solito chiodo.

Su uno scaffale trovai una scatola di cartone con scritto “MOTO” a pennarello. Dentro c’era tutto:
– ricevute di ogni pezzo comprato,
– foto di ogni fase del restauro,
– due perizie che valutavano la moto oltre trentamila euro.

E in fondo, una busta bianca con scritto il mio nome.

Era un testamento, firmato tre settimane prima.

“Lascio la moto a mio fratello Paolo. È l’unico che ha capito cosa rappresenta per me,” aveva scritto con la sua calligrafia un po’ tremante.

La mattina dopo iniziai a telefonare.
Ai compagni di reparto di Luca, quelli con cui aveva condiviso le missioni.
Al gruppo di motociclisti con cui usciva la domenica, quando la salute glielo permetteva.
All’associazione di ex militari dove faceva il volontario.

La notizia della moto bruciata fece il giro di tutti in poche ore.

Verso mezzogiorno qualcuno bussò forte alla porta.

Era ancora il geometra Rinaldi.

«Allora, signor Paolo,» esordì, senza neanche un “buongiorno”. «È stato abbastanza al teatro? Quella carcassa là fuori deve sparire. Gli altri condomini si lamentano, si impressionano.»

«Non è una carcassa. È la scena di un reato.»

Rise. «Un reato? Ma su, non esageri. Vedrà che la polizia avrà altro da fare. Se non la togliete voi, la tolgo io e mando il conto. Ha ancora ventiquattro ore.»

«Benissimo, allora chiami pure la polizia», dissi. «Così facciamo anche la denuncia.»

Per la prima volta il suo sorriso si incrinò. «Non faccia lo spiritoso. Metta a posto e basta.»

Quello che Rinaldi non sapeva era che uno dei compagni di Luca, Matteo, lavorava come investigatore privato.
Un altro, Gianni, si occupava di informatica e sicurezza per un’azienda.
E il gruppo di motociclisti? Aveva persone in ogni settore: meccanici, avvocati, artigiani, persino un ex vigile del fuoco.

Nel giro di sei ore avevano già scoperto alcune cose interessanti sul geometra Rinaldi.

Da mesi cercava di liberare gli appartamenti con affitti più bassi per ristrutturarli e riaffittarli a cifre più alte.
Telefonate, controlli continui, multe per sciocchezze, lettere minacciose… chi poteva permetterselo se ne andava.
Luca, con il suo contratto vecchio e blindato, era un problema grosso.

Gianni trovò anche qualcos’altro: il profilo social del nipote Simone, ancora mezzo aperto a tutti. La notte dell’incendio aveva pubblicato una “storia” con il rogo della moto e la frase: “Una rottamazione in meno nel cortile”. Poi l’aveva cancellata, ma ormai era stata salvata.

La mattina dopo – il giorno in cui, secondo la lettera, avrei dovuto liberare sia la moto sia l’appartamento – mi sedetti accanto al relitto, in cortile, e aspettai.

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