Pensavano di cancellare mio fratello bruciando la sua moto, ma quel cortile ha visto nascere qualcos’altro

Le prime ad arrivare furono due moto, poi una macchina con il portabagagli pieno di termos e brioche.
Poi un furgone. Poi un’altra moto.

Nel giro di un’ora il parcheggio si riempì di veicoli con adesivi di associazioni di ex militari, caschi appesi agli specchietti, giubbotti di pelle vissuta.

Arrivarono anche alcuni vicini dei palazzi di fronte.
Poi altri amici di Luca, gente che non vedevo da anni.
Nel giro di poco c’erano più di cinquanta persone in cortile. Dopo un’altra mezz’ora eravamo più di cento.

Rinaldi scese di corsa, rosso in faccia. «Che cos’è questa invasione? Questo è un condominio privato, non una sagra paesana! State tutti violando la proprietà privata!»

Matteo gli andò incontro con calma. «Siamo tutti qui in visita a un inquilino. Cosa che è prevista dal regolamento, se non sbaglio.»

«Quale inquilino? Luca è morto!»

«Me», dissi io, alzandomi. «Abito ancora qui. Finché uno sfratto non è fatto come si deve, resta valido il domicilio.»

Un uomo in giacca e cravatta, che era arrivato in silenzio pochi minuti prima, tirò fuori un tesserino.

«Avvocato Ferretti», si presentò. «Rappresento l’eredità del signor Luca Bianchi e il signor Paolo, suo fratello. Stiamo preparando una causa per distruzione di bene di valore, molestie verso un inquilino e discriminazione nei confronti di una persona con invalidità riconosciuta.»

Rinaldi sbiancò. «Invalidità? Ma per favore, riusciva benissimo a girare con la moto!»

«Documentazione dell’INPS, 60% di invalidità per danni permanenti a seguito del servizio», rispose l’avvocato. «Lui aveva richiesto più volte un posto auto vicino all’ingresso. Lei glielo ha sempre negato. E adesso risulterà che il nipote dell’amministratore ha dato fuoco alla sua moto, sotto il suo sguardo.»

Gianni mostrò il cellulare. Partì il video: si vedeva Simone che versava benzina sulla moto e dava fuoco, mentre, in alto, dalla finestra illuminata dell’ufficio, si distingueva la figura di Rinaldi.

«È un falso! Un montaggio!» balbettò il geometra.

«No», intervenne una voce alle sue spalle. «Non lo è.»

Era proprio Simone, il nipote. Aveva il volto stravolto. «Zio, hanno già chiamato le forze dell’ordine. Stanno arrivando. Non so come usciamo da questa…»

Come se li avesse evocati, pochi secondi dopo si sentirono le sirene. Due pattuglie si fermarono davanti al cancello, seguite da un’auto dei vigili del fuoco per il sopralluogo.

L’agente che sembrava il più anziano si avvicinò, ascoltò le prime spiegazioni, guardò il video, scrisse qualcosa sul taccuino.

«Dare fuoco a un veicolo di questo valore, con il rischio di far propagare l’incendio ad altri mezzi e al palazzo», dichiarò, «non è uno scherzo. È reato grave. E se viene dimostrato che c’è stato accordo fra più persone, la cosa peggiora.»

Mentre parlava, la signora Rosa avanzò, tenendo stretto lo scialle.
Sembrava tremare, ma la sua voce, quando parlò, era chiara.

«Io ho visto tutto», disse. «Ho visto il ragazzo buttare la benzina. Ho visto il signor Rinaldi alla finestra con la luce accesa. E posso ripetere ogni parola che ci ha detto quando siamo andati a chiedere spiegazioni.»

Dopo di lei, si fece avanti il signor Ahmed.
«Luca era una brava persona. Mi ha aiutato quando non partiva la macchina, ha portato mio figlio piccolo a scuola quando io ero al lavoro. Il geometra lo prendeva di mira da anni, solo perché non gli piaceva la sua moto e il suo passato.»

Poi parlò Sara, l’infermiera.
Poi il vecchio signor Luigi del 4D.
Poi una giovane coppia del 2B, che raccontò di controlli continui e minacce velate se difendevano Luca.

Una voce alla volta, i silenzi cominciarono a rompersi.

Le forze dell’ordine presero nota di tutto.
Alla fine, Rinaldi e Simone salirono in auto con loro per andare a chiarire formalmente la situazione. Non li portarono via in manette davanti a tutti, ma non avevano più l’aria di quelli che comandano.

Quando il cancello si richiuse dietro alle pattuglie, la folla in cortile restò in un silenzio strano.

Fu allora che parlò Andrea, il presidente del gruppo di motociclisti con cui girava Luca.

«Luca era uno di noi», disse. «Questa moto era il suo modo di respirare quando tutto il resto faceva male. Non possiamo riportarla indietro come ieri… ma possiamo ricostruirla. Pezzo per pezzo. E quando sarà pronta, non resterà a prendere polvere: Paolo la guiderà. Perché è quello che Luca avrebbe voluto.»

Mi guardò fisso, e io sentii un nodo in gola grosso come un pugno.
Riuscii solo ad annuire.

Ci vollero sei mesi.

La causa contro il geometra e il nipote andò avanti. Alla fine, per evitare guai peggiori, accettarono un patteggiamento: risarcimento dei danni, interdizione dalla gestione di condomini per diversi anni, lavori socialmente utili per il ragazzo.

Ma la vera storia, per me, fu un’altra: la rinascita della moto.

I compagni di reparto di Luca trovarono, in giro per l’Italia, pezzi originali dell’epoca. Uno spedì un serbatoio da Torino, un altro portò una forcella da Bari. Un vecchio meccanico in pensione, conoscente di mio fratello, aprì la sua officina nel fine settimana solo per noi.

Il gruppo di motociclisti lavorava ogni sabato e domenica.
Mi facevano vedere ogni singolo passaggio: come si monta un carburatore, come si tende una catena, come si allineano le ruote.

I vicini, quelli stessi che avevano avuto paura di parlare, cominciarono a scendere in cortile con torte, caffè, panini.
I nipoti della signora Rosa disegnarono un cartello enorme: “La moto di Luca vive”. Lo appesero sulla rete del garage.

Il condominio cambiò amministratore. Arrivò una giovane donna, la dottoressa Conti, che sembrava davvero interessata alle persone e non solo alle spese.
Fu lei a propormi di intestare il contratto a mio nome, con lo stesso affitto di Luca. E mi assegnò un posto auto proprio davanti al portone.

«È quello che gli spettava da anni», disse semplicemente.

Il giorno in cui la moto fu pronta, sembrava che mezza città si fosse data appuntamento nel cortile.
C’erano i compagni di reparto di Luca, il gruppo di motociclisti, i vicini, alcuni medici del reparto dove aveva fatto la terapia, perfino due agenti che avevano seguito la denuncia.

Quando qualcuno girò la chiave e il motore si accese, il rumore riempì il cortile come un tuono buono.
La signora Rosa si mise a piangere.
Il signor Ahmed si portò la mano al cuore.
Sara sussurrò: «Così lo sento ancora qui.»

Io salii in sella con le gambe che mi tremavano.
Indossavo la vecchia giacca di pelle di Luca e portavo i suoi ciondoli al collo. La moto sembrava respirare sotto di me, come un animale tornato in vita.

Feci il primo giro dell’isolato con un corteo di moto dietro. Quando rientrammo nel cortile, la gente applaudiva. Non perché la moto fosse bella – e lo era – ma perché tutti sapevano cosa rappresentava.

Nel posto auto di Luca, ora mio, mettemmo una piccola targhetta di metallo, pagata di tasca loro dai condomini:

“In memoria di Luca Bianchi (1969–2024)
Fratello, amico, volontario.
Ha aiutato tutti, anche quando nessuno aiutava lui.”

Ogni tanto, quando scendo, trovo un fiore sulla sella.
Oppure un biglietto: “Grazie per quella volta che mi hai accompagnato in ospedale”, “Grazie per avermi insegnato a non avere paura della notte”, “Grazie per aver aggiustato quella vecchia macchina quando non avevo soldi”.

La nipotina della signora Rosa mi ha regalato un disegno: il cortile, la moto e un uomo con la barba che sorride. Sopra ha scritto: “Ciao, Luca”. Quel foglio sta sempre nel mio portafoglio.

Pensavano di cancellare mio fratello bruciando ciò che amava di più.
Invece hanno acceso qualcos’altro: una memoria che ormai appartiene a tutto il quartiere.

Pensavano che “la gente delle moto” fosse solo un fastidio.
Hanno scoperto che dietro quei caschi ci sono persone che non abbandonano i loro, nemmeno quando non ci sono più.

Ogni domenica mattina porto la moto al cimitero, poi passo davanti al centro dove Luca faceva volontariato, e infine torno sotto casa. Alcuni vicini aprono le finestre e salutano con la mano. Altri si affacciano solo per ascoltare il rombo del motore.

Quel rumore, per me, non è solo rumore. È un promemoria: Luca è esistito. Ha sofferto, ha riso, ha aiutato, ha lasciato un segno.

E nessuna cattiveria, nessun pregiudizio e nessun incendio può bruciare davvero quello che una persona ha seminato nel cuore degli altri.

La moto che hanno bruciato è diventata la moto che ha unito un condominio intero.
L’uomo che cercavano di far sparire è diventato quello di cui tutti, oggi, raccontano qualcosa.

C’è una cosa che ho imparato da tutto questo: quando qualcuno distrugge, per invidia o per paura, ciò che ami, non è detto che finisca tutto lì. A volte, da quelle ceneri nasce qualcosa di più grande.

Luca lo sapeva.
Per questo, invece di lamentarsi, sistemava moto, aiutava vicini, faceva volontariato anche quando stava male.

«Rispondi sempre con gentilezza», mi diceva. «Ma tieni la moto in ordine, nel caso la gentilezza da sola non basti.»

La moto è ancora in ordine, Luca.
E la tua gentilezza? Quella, a quanto pare, è più resistente del fuoco.

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