La mia “candidata di sei anni” è arrivata con un grembiule gigante e il curriculum stropicciato della madre malata stretto in mano. Ha preso un autobus dall’altra parte della città per evitare lo sfratto. Credeva di salvare sua mamma. Non sapeva che stava per salvare me, un amministratore delegato solo che aveva dimenticato come si vive.
Mi chiamo Davide Rinaldi. Ho cinquantasette anni e, negli ultimi quattro, sono stato un fantasma.
Vivo all’ultimo piano di un palazzo che appartiene alla mia società. Dal mio ufficio d’angolo vedo tutto lo skyline della città, i tetti, le luci, le gru: è il monumento ai trent’anni che ho passato a costruire il mio impero immobiliare.
Ho tutto ciò che un uomo “dovrebbe” desiderare. Un attico. Un autista. Un’azienda che ormai va avanti quasi da sola.
Ma quella vista è solo vetro e cemento. Da quando è morta mia moglie, Giulia, qui in alto fa solo freddo.
Mio figlio, Marco, vive la sua vita in un’altra città. La mia giornata è diventata un giro sempre uguale: mi sveglio, vado in ufficio vuoto e ci resto finché non mi si chiudono gli occhi, solo per rimandare il momento di tornare in una casa enorme e silenziosa. I mille metri quadri del mio attico sono più freddi e vuoti di questo ufficio.
Era un martedì. Le 17:53. La pioggia cominciava a scivolare sui vetri. Stavo per chiudere il computer quando l’interfono ha trillato, facendomi sobbalzare.
Era Marta, la mia assistente da vent’anni. La sua voce era tesa.
«Dottor Rinaldi… mi scusi, ma… abbiamo una situazione un po’ insolita alla reception.»
Sospirai, sfregandomi le tempie. «Che tipo di situazione insolita, Marta? Una protesta?»
«No, signore. È… è una bambina. Una bambina piccola.»
Mi bloccai. «Una bambina? Qualcuno l’ha lasciata lì?»
«No, signore. Dice… dice che è qui per un colloquio di lavoro. Per il posto da addetta alle pulizie. Afferma che la madre è malata e che lei è venuta a “prendere il suo posto”. La sicurezza è… perplessa, signore. Ma lei insiste.»
Ho sentito una scossa. Non di fastidio, ma qualcos’altro. Una curiosità acuta, improvvisa. «Quanti anni ha?»
«Signore, io direi… non più di sei.»
Guardai la poltrona di pelle vuota dall’altro lato della scrivania. Una bambina di sei anni. «Manda su questa bambina, Marta.»
«Signore?»
«Manda la bambina da me. Me ne occupo io.»
Mi alzai e sistemai la cravatta, senza la minima idea di cosa stavo per affrontare. Cinque minuti dopo, la mia pesante porta di legno si è aperta con un cigolio.
Ed è entrata la persona più piccola, strana e serissima che avessi mai visto.
Non arrivava a più di un metro e dieci. Aveva i capelli biondi, ricci e indisciplinati, e indossava dei leggins e una maglietta semplice. Ma è stata la sua… divisa… a togliermi il fiato.
Portava un grembiule bianco da pulizie, di quelli industriali. Le era stato avvolto intorno alla vita almeno due volte e ancora le cadeva fino alle scarpe da ginnastica.
In mano stringeva un foglio stropicciato, con la stessa concentrazione con cui un ufficiale giudiziario consegna un atto importante. I suoi occhi azzurri erano spalancati per quello che ho capito subito essere puro terrore, ma lei lo mascherava con un broncetto ostinato.
Marciò – sì, marciò – dritta alla mia scrivania e si fermò, alzando la testa per guardarmi.
«Signore?» disse. La sua voce era un filo sottile, acuto, ma fermo. «Mi chiamo Chiara Rossi. Sono qui per fare il lavoro delle pulizie.»
I muri che avevo costruito intorno a me in quattro anni – il lutto, la solitudine, la routine sterile – non si sono solo incrinati. Sono crollati.
Aggirai la grande scrivania di mogano dietro cui mi ero sempre nascosto come dietro a una fortezza. Mi inginocchiai sul tappeto spesso. Le ginocchia protestarono, ma dovevo arrivare alla sua altezza.
«Ciao, Chiara. Io sono Davide,» dissi, con la voce stranamente roca. «È… è un vero piacere conoscerti.»
Da vicino, vidi le occhiaie scure sotto i suoi occhi. Quella bambina stava andando avanti solo per forza di volontà. Era stremata.
«La mia assistente mi ha detto che… la tua mamma è malata?» chiesi piano.
Lei annuì, e il labbro inferiore le tremò forte prima che lo mordesse per bloccarlo. «Le è venuta una febbre forte. Doveva venire lei al colloquio oggi… ma non riesce ad alzarsi dal letto. Piangeva.»
La voce le scese a un sussurro cospirativo. «Piangeva perché ha detto che questo lavoro ci serve. Ci serve davvero, davvero tanto.»
Chiara mi porse il foglio stropicciato. «Ho portato il suo curriculum. E ho messo il suo grembiule. Così capisce che faccio sul serio.»
Così capisce che faccio sul serio.
Una bambina di sei anni che cerca di essere adulta, di sistemare un problema da grandi.
«Chiara,» dissi, con la gola che si stringeva. «Sei incredibilmente coraggiosa. Ma… come sei arrivata fin qui? Da sola?»
«Ho preso l’autobus,» rispose, come se fosse ovvio. «Il numero 12. La mamma mi ha fatto vedere quale prendere quando deve andare in centro. Le ho lasciato un biglietto sul cuscino così non si spaventava quando si svegliava. Le ho scritto che avrei sistemato tutto io.»
Che avrei sistemato tutto io.
Questa piccola guerriera. Questa… bambina… aveva attraversato mezza città con l’autobus, era entrata in un grattacielo e aveva affrontato la sicurezza, solo perché aveva sentito la mamma piangere.
Pensai a mio figlio Marco alla stessa età. Il suo problema più grande era se a cena avremmo mangiato pizza o pasta. L’ingiustizia di tutto questo, il peso enorme su quelle spalle minuscole, mi fece girare la testa.
«Vuoi… vuoi sederti un momento?» indicai una delle mie costose poltrone per gli ospiti.
Lei annuì seriamente e dovette usare entrambe le mani per arrampicarsi. Le gambe le penzolavano a una buona spanna dal pavimento. Si sistemò con cura il grembiule gigante sulle ginocchia.
«Mi racconti un po’ della tua mamma?» chiesi, sedendomi sul bordo della mia scrivania.
«Si chiama Maria Rossi,» disse, recitando a memoria. «È la migliore nelle pulizie. La migliore. Lavora di notte in ospedale e di giorno pulisce le case. Ma una delle famiglie… si è trasferita. E adesso… adesso non abbiamo abbastanza per l’affitto.»
Le lacrime, che aveva tenuto a bada fino a quel momento, cominciarono a riempirle gli occhi e a scendere sulle guance. Le spazzò via con rabbia con il dorso della mano, ma continuò a parlare.
«Il padrone di casa ha chiamato. Io l’ho sentita al telefono. Lei… lei lo implorava. Lo implorava per avere più tempo.»
Mi guardò dritto negli occhi, con uno sguardo vecchio cent’anni. «Non voglio perdere la nostra casa, signor Davide. Io… voglio solo aiutare la mia mamma.»
Non sentivo più la faccia. Mi accorsi che avevo gli occhi pieni di lacrime. Quella bambina, con il suo cuore feroce e il grembiule troppo grande, aveva più coraggio di qualsiasi dirigente che avessi mai incontrato.
«Chiara,» dissi, con la voce impastata. «Posso… posso vedere il curriculum di tua madre?»
Me lo porse con entrambe le mani, come fosse qualcosa di sacro. Lo aprii con cura. Era semplice, battuto al computer. Maria Rossi. Quindici anni di esperienza. Referenze da tre famiglie e dall’ospedale cittadino.
In fondo, in una calligrafia ordinata, aveva aggiunto una nota: «Sono onesta, affidabile e lavoro sodo. Farò del mio meglio per voi.»
Ma fu la frase sotto il nome, in alto, a spezzarmi.
Madre single di Chiara (6 anni). Mia figlia è il mio tutto.
Alzai lo sguardo dal foglio. «La tua mamma ha scritto qui… che tu sei il suo tutto.»
Chiara annuì, le lacrime ormai in piena. «Me lo dice tutti i giorni. Dice… dice che siamo una squadra. Ma io non la posso aiutare. Sono troppo piccola per lavorare. Non posso aggiustare niente!»
«Oh, tesoro,» dissi, e senza pensarci le presi la mano. Sparì quasi dentro la mia. «La stai aiutando. Stai facendo il lavoro più importante del mondo, adesso.»
«Davvero?»
«Sì. Mi stai facendo capire esattamente che persona è tua madre. Mi stai mostrando che famiglia siete. Una famiglia piena di amore, di coraggio e di una dignità che il denaro non può comprare. Tu… tu sei la sua miglior referenza, Chiara.»
Il suo viso, contratto dalla disperazione, si illuminò all’improvviso di una speranza disperata. «Vuol dire… vuol dire che… la prende per il lavoro?»
Un sorriso vero mi si allargò sul volto. Mi sembrava arrugginito, strano. Non sorridevo davvero da quattro anni.
«Vuol dire,» dissi, «che adesso chiamiamo subito la tua mamma per dirle che sei al sicuro. E poi… sì, Chiara. Credo proprio che possiamo aiutarci a vicenda.»
Schiacciai il pulsante dell’interfono. «Marta, mi trovi per favore il numero di cellulare di una Maria Rossi. Ha fatto domanda per un posto alle pulizie. Mettila in linea con me. Subito.»
Quando Marta trasferì la chiamata, la voce dall’altra parte era devastata. Si sentiva la febbre e il panico. «Chiara?! Amore mio! Dio mio, dove sei? Mi sono svegliata e il tuo biglietto… ho avuto una paura…»
«Signora Rossi,» dissi, cercando il tono più dolce possibile. «Mi chiamo Davide Rinaldi. Sua figlia è al sicuro. È qui nel mio ufficio, e devo dirle che è la persona più coraggiosa e straordinaria che abbia incontrato da molto tempo.»
Un singhiozzo. «Mi dispiace, dottore. Mi dispiace da morire. Non avrebbe dovuto… non so cosa…»
«È venuta al colloquio al posto suo,» la interruppi piano. «E devo essere sincero, signora Rossi. È stato il miglior colloquio della mia carriera.»
Silenzio. Uno di quelli pieni di paura. Poi, un sussurro sconfitto. «Capisco. Mi… mi dispiace averle fatto perdere tempo.»
«No!» dissi, forse troppo forte. «No, non ha capito. Non le offrirò il posto da addetta alle pulizie.»
Il silenzio tornò, più pesante.
«Le voglio offrire il ruolo di responsabile delle pulizie per tutto il nostro settore residenziale,» continuai, mentre le parole mi uscivano da sole. «È un posto fisso, con stipendio, contributi, ferie, e… e un appartamento con due camere nel nostro stabile principale, senza affitto, finché lavorerà con noi.»
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