— Se hai paura, mi dai un colpetto sulla spalla e ci fermiamo, — le disse.
Giulia, seduta dietro, con le braccia strette intorno a lui, sentì il vento sfiorarle il viso.
Per la prima volta, quel rumore non le ricordava più le urla in casa.
Le ricordava cinquanta moto ferme davanti a un tribunale, cinquanta uomini che avevano scelto di mettersi tra lei e il suo incubo.
Quel rombo era diventato un suono di protezione.
Passarono gli anni.
Giulia crebbe, cambiò scuola, poi città.
La voce non la perse più. A volte tremava ancora, ma non spariva. Imparò a dire “no”, a dire “mi fa male”, a dire “non è colpa mia”.
Ogni tanto tornava nel paese d’origine, a trovare la madre e… i “Lupi della Strada”.
Li trovava in quel solito bar sulla provinciale, un po’ imbiancati, un po’ più lenti, ma sempre pronti a una battuta.
— Ecco la nostra Piccola Guerriera! — esclamava Nonno, che nel frattempo era davvero diventato molto anziano.
La toppa sul piccolo gilet di pelle non le entrava più da anni.
Ma Giulia la teneva ancora, appesa al muro della sua stanza nella nuova città.
Un giorno, ormai ventiduenne, fu invitata in una scuola media del paese per parlare a un gruppo di ragazzi del tema del coraggio e delle paure. Era stata la psicologa a suggerirlo.
Entrò in aula con passo tranquillo.
Davanti a lei, un mare di facce curiose: alcuni ragazzi ridacchiavano, altri la fissavano, qualcuno guardava il telefono sotto il banco.
Giulia appoggiò sul tavolo il vecchio gilet di pelle, con la toppa leggermente consumata.
Lo sollevò con le mani.
— Quando avevo otto anni, — iniziò — non parlavo quasi più. Avevo paura di tutto. Soprattutto di una persona che avrebbe dovuto proteggermi e invece mi faceva del male.
Raccontò, con parole semplici, senza entrare nei particolari, della bambina che non dormiva la notte, dell’assistente sociale, del tribunale. E poi raccontò di cinquanta moto, di cinquanta uomini che la gente chiamava “diavoli”, ma che per lei erano stati angeli custodi su due ruote.
— Mi hanno insegnato una cosa, — concluse — che a volte il mondo è al contrario: quelli che sembrano cattivi ti proteggono, e quelli che sembrano perbene ti feriscono. Ma soprattutto mi hanno insegnato che il silenzio non salva nessuno. Parlare fa paura, lo so. Ma è l’unico modo per fare entrare la luce.
Alzò il gilet, mostrando la toppa “Piccola Guerriera”.
— Io non sono diventata coraggiosa da un giorno all’altro. Ho solo smesso di essere da sola. E voi… — guardò i ragazzi uno a uno — non dovete mai restare da soli con la vostra paura. Non importa se vi aiuta una maestra, un amico, un’assistente sociale… o un gruppo di motociclisti vestiti di nero. L’importante è cercare una mano da stringere.
In fondo all’aula, un ragazzo con la felpa nera alzò la mano.
— Signorina… ma quei motociclisti… sono ancora qui, in paese?
Giulia sorrise.
— Alcuni sì, altri no. Ma non è questo che conta. Quello che conta è che, quel giorno, quando avevo più paura, cinquanta “diavoli” hanno fatto silenzio per ascoltare la voce di una bambina. E, da allora, ogni volta che sento il rombo di una moto… mi ricordo che la mia paura non ha più l’ultima parola.
Fuori dalla scuola, nel parcheggio, una moto solitaria aspettava.
Appoggiato al muro, con qualche ruga in più e la barba un po’ più bianca, Orso lanciò a Giulia un’occhiata complice.
— Allora, Guerriera, — disse — pronta per un altro giro?
Lei rise, salì dietro di lui e, mentre il motore si accendeva, il rombo riempì l’aria.
Ma questa volta non c’era nessun silenzio ferito da coprire: c’era solo una voce giovane e forte che aveva imparato a raccontare la propria storia.






