I bambini di mio fratello bussarono alla mia porta alle due di notte.
I loro genitori li avevano chiusi fuori di casa, di nuovo, e quella notte io ho deciso di dare a mio fratello una lezione che non dimenticherà mai.
«Elena, ti prego, abbiamo freddo…»
La voce era appena un soffio dall’altra parte della porta del mio appartamento, ma mi attraversò come una secchiata d’acqua gelida.
Allungai la mano verso il comodino. Lo schermo del cellulare illuminò il buio.
3:17 di notte.
Il cuore mi batteva già forte mentre inciampavo quasi nel tavolino del salotto per arrivare alla porta.
Dallo spioncino li vidi: tre sagome piccole, strette l’una all’altra nel corridoio pallido della palazzina.
Spalancai la porta così in fretta che sbatté contro il muro.
«Luca, ma che state facendo qui?»
Mio nipote più grande tremava. La maglietta del pigiama gli si incollava al petto magro, umido di sudore nonostante il gelo di febbraio.
Dietro di lui, la sorellina Giulia stringeva le mani del fratellino Matteo così forte che le nocche le erano diventate bianche.
Niente giacche, niente scarpe. Solo calzini con i cartoni animati, ormai grigi e bucati per il cammino.
«Dove sono i vostri genitori?» La mia voce uscì più dura di come avrei voluto. «È notte fonda.»
«Ci hanno chiusi fuori.»
La voce di Luca si spezzò. Cercava di fare il coraggioso, di tenersi insieme, ma lo vedevo cedere.
«Non sapevamo dove andare, zia Elena. Abbiamo camminato. Ci abbiamo messo… un sacco.»
Mi si gelò lo stomaco.
«Avete camminato? Luca, fuori ci sono sotto zero! Quanto lontano?»
«Da casa nostra.»
I denti di Giulia battevano così forte che riusciva a malapena a parlare. «Abbiamo camminato da casa nostra.»
Sei chilometri.
Avevano fatto sei chilometri nel cuore della notte, con il gelo, in pigiama.
Li tirai dentro, il fiato corto. Chiusi la porta, girai la chiave e corsi subito al termostato, alzandolo a 24.
Le labbra di Luca avevano una sfumatura violacea. Matteo non piangeva nemmeno più, fissava il vuoto con un’espressione spaventata che nessun bambino di sei anni dovrebbe avere.
«Coperte,» borbottai andando di corsa verso l’armadio. «Ci vogliono coperte e… Dio, i vostri piedi.»
Mi inginocchiai per guardarli meglio e dovetti ingoiare la rabbia che mi saliva alla gola.
In alcuni punti i calzini erano letteralmente appiccicati alla pelle. Il piede sinistro di Giulia era di un rosso acceso che prometteva vesciche. Le dita di Matteo sembravano piccole candele di cera, troppo chiare.
«Adesso mi raccontate esattamente cos’è successo,» dissi, cercando di tenere la voce calma mentre avvolgevo Matteo nella coperta elettrica. «Dal principio.»
Luca si lasciò cadere sul divano, e la storia uscì a pezzi.
Le sue parole disegnavano un quadro che io, in fondo, avevo sempre saputo, ma che avevo scelto di non guardare troppo da vicino: mio fratello Marco e sua moglie Laura che trattavano la genitorialità come un hobby scomodo, qualcosa da fare quando capitava.
Solo che stavolta non erano stati solo superficiali. Erano stati pericolosi.
Mentre Luca raccontava di come avessero bussato alla porta di casa loro per venti minuti senza risposta, di come avevano dovuto scegliere a caso in che direzione camminare nel buio, di come Giulia avesse preso Matteo sulle spalle per l’ultimo tratto perché i suoi piedini gli facevano troppo male, sentii una consapevolezza gelida farsi strada dentro di me.
Non era la prima volta.
Era solo la prima volta che venivano da me.
Preparai del latte caldo con il cacao mentre loro si scongelavano sotto tutte le coperte che avevo. Le mani mi tremavano mentre mescolavo il pentolino sul fornello.
Avevo trentatré anni, lavoravo come psicologa scolastica in una scuola media statale della provincia, e da dieci anni aiutavo famiglie in crisi, genitori in difficoltà, ragazzi allo sbando.
Ma questa era un’altra cosa.
Questa era la mia famiglia. Erano i figli di mio fratello.
Era tutto ciò che avevo imparato a riconoscere e segnalare, che succedeva sotto il mio naso.
«È già successo altre volte?» chiesi piano, porgendo a Luca la tazza.
Giulia finalmente aveva smesso di piangere; Matteo dormiva di sasso sulla poltrona, avvolto nelle coperte come un piccolo burrito traumatizzato.
Luca fissò il cacao. «Dipende cosa intendi per ‘questo’,» mormorò.
«Essere chiusi fuori?»
«Non proprio chiusi fuori,» disse, scegliendo le parole con una cura che un dodicenne non dovrebbe avere. «Però… a volte si dimenticano di noi. Tipo, escono e non ci dicono dove vanno. O chiudono la porta a chiave quando vanno a letto e noi siamo ancora giù nel cortile a giocare. Oppure…»
Si interruppe.
«Oppure cosa?»
«Oppure non tornano a casa quando dicono.» La voce gli si fece piccola. «E dobbiamo arrangiarci.»
Giulia si strinse le gambe al petto. «Luca ci prepara la cena quasi tutte le sere. La mamma dice che cucinare è noioso e il papà torna tardi dal lavoro. Luca sa fare la pasta, le uova e i toast.»
«A volte solo cereali,» aggiunse Luca in fretta, come se dovesse giustificarsi. «Però a Matteo do sempre qualcosa. Sempre.»
Sentii qualcosa rompersi dentro di me.
«Quanto spesso siete da soli?»
Si guardarono. Quello scambio muto tra fratelli in cui con gli occhi si chiedono se è sicuro dire la verità.
«Quasi tutte le sere,» ammise Luca alla fine. «Papà lavora fino alle otto o alle nove. La mamma esce con le amiche.»
«Ha il corso di yoga il martedì, l’aperitivo il giovedì, i week-end al mare una volta al mese. Quando papà torna, a volte è stanco e va direttamente in camera. A volte escono insieme e…»
«E tu ti occupi di Giulia e Matteo?»
«Non mi pesa,» disse lui. Ma gli occhi dicevano altro. «Qualcuno deve farlo.»
Provai a chiamare Marco cinque volte. Solo segreteria.
Provai con Laura. Niente.
Provai il telefono fisso di casa. Squilli nel vuoto.
Erano le quattro e mezza del mattino, e mio fratello e sua moglie erano irraggiungibili mentre i loro figli, con i piedi quasi congelati, siedevano nel mio salotto.
Io ero una professionista tenuta per legge a segnalare i casi di sospetto maltrattamento. Sapevo quale fosse il mio dovere.
Sapevo cosa prevedono le norme.
Ma sapevo anche cosa avrebbe significato per i bambini, per Marco, per tutta la famiglia.
Una volta, io e mio fratello eravamo stati legatissimi. Prima di Laura, prima dei bambini, prima che lui diventasse una persona che non riconoscevo quasi più.
Una persona che metteva le uscite, le cene, il divertimento, prima della sicurezza dei figli.
«Luca,» dissi piano, «qualcuno vi ha mai detto che potete chiedere aiuto? Tipo chiamare il 112, o parlare con un’insegnante?»
Lui impallidì. «Papà ha detto che se raccontiamo in giro… se diciamo come vanno le cose… ci portano via. Ha detto che l’affido ti divide dai fratelli e non ci vediamo più.»
Fu lì che capii che non avevo nessuna scelta.
Il numero del pronto intervento dei Servizi Sociali Minori sul mio telefono mi sembrava pesare un quintale.
Mi chiusi in cucina, tirai la porta perché i bambini non sentissero. Guardai lo schermo. Il dito che tremava sul tasto «chiama».
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