Ho infilato l’asciugamano sotto la porta d’ingresso con le mani che tremavano. Mi sentivo un ladro in casa mia, ma stavo solo cercando di nascondere l’amore.
Fuori piove. È una di quelle giornate grigie di novembre che ti entrano nelle ossa, tipiche della Pianura Padana. Dal mio balcone vedo solo nebbia e i fari delle macchine che passano veloci. Ma stasera, del tempo non mi importa nulla.
Oggi Argo compie sedici anni.
È steso sul pavimento in cotto del salotto, vicino al termosifone. Argo è il mio vecchio pastore maremmano. Una volta era un gigante bianco che correva felice nei campi; oggi è solo un mucchietto di ossa stanche. I suoi occhi sono velati, non mi vede quasi più, e le zampe posteriori hanno ceduto. Ogni volta che prova ad alzarsi, sento le sue unghie scivolare sulle piastrelle, un suono che mi stringe il cuore.
Sul tavolo della cucina, troneggia come un re, c’è un filetto di manzo. L’ho preso dal macellaio storico del quartiere, quello che conosce mia famiglia da trent’anni. Non roba del supermercato confezionata nella plastica. Carne vera, rossa, profumata. Mi è costata quanto la spesa di una settimana, ma chi se ne frega.
Il veterinario ieri è stato onesto, con quel modo di fare diretto ma gentile: “Giuseppe, credo che questo sarà il suo ultimo inverno. Le anche non reggono più.”
Non accendo la TV. In questo condominio, il silenzio è sacro, quasi una religione. Da quando è arrivata la nuova amministratrice, le regole sono diventate ferree. “Rispetto degli orari di riposo”, c’è scritto nell’atrio. I miei vicini sono brave persone, ma non tollerano disturbi.
Ho paura. Ultimamente Argo guaisce nel sonno. Piange piano, forse per i dolori, forse perché sogna di correre e non ci riesce più. Ho il terrore che qualcuno suoni al citofono per lamentarsi. Se mi fanno storie, se mi costringono a darlo via perché “disturba la quiete pubblica”, io muoio con lui.
Improvvisamente, bussano alla porta.
Toc. Toc. Toc.
Il cuore mi sale in gola. Guardo Argo che solleva a fatica la testa. Sarà sicuramente il ragazzo del piano di sopra. Quello coi tatuaggi sulle braccia e la musica trap che si sente appena appena attraverso il soffitto. Lo incrocio sempre sulle scale, non saluta mai, guarda sempre il telefono. Ho sempre pensato: “Ecco un altro maleducato che non sa cosa sia il rispetto”. Sicuro viene a dirmi di far tacere il cane.
Esito. Apro o faccio finta di non esserci? Ma bussano ancora.
Mi asciugo le mani sul grembiule, faccio un respiro profondo e apro. Sono pronto a litigare, o a pregare in ginocchio. “Vi prego, solo per stasera.”
Ma non c’è nessuno.
Il pianerottolo è deserto. Sento solo dei passi veloci che salgono le scale.
Guardo in basso. Sullo zerbino c’è un pacco ingombrante avvolto male nella carta da pacchi e una busta bianca.
Raccolgo la busta. C’è scritto solo “Per il cane” in stampatello.
Rientro e chiudo a chiave. Apro la lettera con le dita rigide.
«Buonasera Giuseppe. Abito sopra di Lei. Sento il suo cane che piange un po’ la notte. Credo abbia l’artrosi, vero? Il mio vecchio cane, Bruno, aveva lo stesso problema. Lavoro in un negozio di animali e abbiamo dismesso questo materasso ortopedico in memory foam perché la confezione era rotta. È nuovo. Glielo lascio qui. Aiuta molto per le ossa. Un abbraccio.»
Rimango impietrito. Rileggo la lettera. “Un abbraccio”.
Apro il pacco. È un materasso per cani di lusso, grigio scuro, morbido come una nuvola.
Mi sento un vecchio stupido. Io che lo giudicavo per i tatuaggi e la musica. Io che pensavo fosse un menefreghista, mentre lui ascoltava il dolore del mio cane con compassione. Noi italiani siamo fatti così, a volte sembriamo chiassosi o distanti, ci lamentiamo di tutto, ma quando serve, il cuore lo mettiamo sul tavolo.
Srotolo il materasso vicino al caldo. Prendo Argo in braccio – pesa così poco ormai – e lo adagio sopra. Lui fa un giro su se stesso, annusa il tessuto nuovo, e si lascia andare con un sospiro lungo, profondo. Sembra dire: “Finalmente”.
Torno in cucina. Accendo il fornello. Metto un filo d’olio buono nella padella e un rametto di rosmarino. Butto la carne. Il profumo del soffritto e della carne rosolata riempie la casa. Di solito chiuderei tutto per non far uscire l’odore nelle scale.
Ma stasera no.
Lascio la porta della cucina spalancata. Che sentano! Che sentano che qui c’è vita, che c’è amore, che si mangia bene!
Taglio il filetto a pezzettini. Argo mangia con una voracità che mi commuove. Pulisce il piatto fino all’ultima goccia di sugo.
Più tardi, prendo carta e penna. Devo rispondere.
«Ragazzo. Argo sta dormendo come un angelo. Grazie. Ho una bottiglia di Chianti Riserva che tengo per le occasioni speciali. Se ti va di passare a berne un bicchiere, la mia porta è aperta. Bussa forte, che sono un po’ sordo. Giuseppe.»
Infilo il biglietto sotto la sua porta.
Fuori la nebbia copre tutto, ma dentro casa mia non fa più freddo. Guardo il mio vecchio cane dormire sereno e penso che, in fondo, non siamo soli come crediamo. Basta un gesto gentile, un po’ di buon cibo e un cane fedele per ricordarci che siamo tutti esseri umani.
Buon compleanno, vecchio mio.
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