Quando il Condominio Voleva Silenzio, un Cane Insegnò la Gentilezza

Avevo infilato il biglietto sotto la sua porta come si fa con i segreti, sperando che non mi tornasse indietro addosso. La notte dopo, Argo aveva dormito davvero come un angelo sul materasso nuovo, e io ero rimasto seduto sul divano a guardarlo respirare, come se quel suono potesse tenere insieme il mondo.

Fuori continuava a piovere, ma dentro casa mia, per la prima volta da settimane, non avevo più paura del citofono.

La mattina seguente mi svegliai presto, con quel silenzio di condominio che sembra fatto apposta per farti sentire in colpa anche quando cammini piano. Argo era ancora sul suo “trono” grigio, raccolto su se stesso come una nuvola stanca, e quando mi vide—o forse mi sentì—mosse appena la coda.

Mi preparai il caffè senza accendere la radio, come se una canzone potesse disturbare la tregua. Il filetto del giorno prima aveva lasciato nell’aria una scia calda di rosmarino e casa, e io mi accorsi che non mi dispiaceva affatto.

Poi, verso le dieci, successe.

Bussarono di nuovo.

Non tre colpi secchi come la sera prima. Questa volta era un bussare esitante, come quando non vuoi disturbare ma devi farlo. Mi si gelò lo stomaco lo stesso, perché certe paure non chiedono il permesso per restare.

Argo sollevò la testa e fece un piccolo verso, non un guaito: un suono basso, quasi curioso.

Aprii piano, già pronto a vedere l’amministratrice con la sua cartellina o un vicino con la faccia storta. Invece c’era lui: il ragazzo del piano di sopra, in felpa scura, tatuaggi sulle mani, occhi un po’ stanchi e una busta di carta in mano.

«Buongiorno… Giuseppe, giusto?» disse, e la voce non era affatto arrogante. Era la voce di uno che non sa bene come stare al mondo quando deve essere gentile.

Annuii, stringendo il bordo della porta come un’ancora.

«Io sono Nico. Scusi se…» fece un gesto verso il corridoio, come se tutta quella scena potesse essere vista dagli altri. «Ho letto il biglietto. Non… non serviva il vino, davvero.»

Aveva detto “vino” come si dice “favore”, con un pudore strano, quasi antico. E lì mi venne da sorridere, ma un sorriso piccolo, per non spaventarlo.

«Entra,» dissi. «Se sei venuto fin qui, almeno scaldati un attimo. Fa un freddo che ti entra nelle ossa.»

Nico esitò un secondo, poi entrò, guardandosi intorno con quella cautela che hanno i giovani quando mettono piede in una casa “da vecchi”: mobili pesanti, fotografie, un odore di pulito e di tempo.

Argo fece un altro piccolo verso, e Nico si accovacciò a fatica, come se quel gesto gli fosse familiare e doloroso insieme.

«Ciao, campione,» mormorò, e allungò la mano senza invadenza. «Che bella faccia che hai.»

Vidi Argo annusare l’aria, poi la mano. E, con una lentezza che mi spezzò e mi ricucì nello stesso istante, appoggiò il muso sul palmo del ragazzo.

Nico deglutì, come se avesse ingoiato qualcosa di troppo grande.

«Gli ho portato questi,» disse, sollevando la busta. «Sono… robe morbide. Non so se può mangiarle, ma… sono facili. Se non vanno bene, le butta.»

«Qui non si butta niente quando c’è un gesto buono dentro,» risposi, e mi accorsi che mi tremava la voce più della sera prima.

Lo portai in cucina e tirai fuori due bicchieri. Non mi andava di fare cerimonie, ma nemmeno di fare finta che fosse una cosa normale. Perché non era normale: era raro.

«Non è un invito da bar,» dissi, prendendo la bottiglia. «È… come si faceva una volta. Quando uno ti tende la mano, tu almeno la guardi.»

Nico si sedette al tavolo, le spalle un po’ curve, come se si aspettasse una ramanzina anche quando gli offrivano qualcosa. Io versai piano, senza esagerare, che la mattina è la mattina, ma certe cose non hanno un orario.

«Sa,» disse lui, fissando il bicchiere, «io la sera mi metto le cuffie. Non perché… non mi importi. È che… a volte se ascolto troppo, mi viene da impazzire.»

Quelle parole mi arrivarono addosso come una confessione lasciata sullo zerbino.

«E Bruno?» chiesi piano. «Quello di cui hai scritto.»

Nico sorrise, ma era un sorriso rotto.

«Bruno era… il mio. L’ho preso quando avevo quindici anni, quando mio padre se n’è andato e mia madre lavorava sempre. Era un cane enorme, un meticcio con più cuore che cervello. Dormiva con me. Mi seguiva ovunque. Quando ha iniziato a stare male, faceva quel verso… lo stesso verso di Argo, di notte.»

Fece una pausa, e nel silenzio si sentì il termosifone che sputava aria calda, come un vecchio che sospira.

«Quando l’ho perso,» continuò, «mi sembrava che la casa fosse diventata vuota e cattiva. Allora quando ho sentito Argo… mi è venuto addosso tutto insieme. E ho pensato: se posso evitare a qualcuno quella sensazione di impotenza… lo faccio. Anche se non so salutare sulle scale.»

Arrossì appena quando disse quell’ultima frase, come se si prendesse in giro da solo. E io, che avevo passato la vita a giudicare la gente dal modo in cui si veste e da come cammina, mi sentii piccolo piccolo.

«Anch’io non so sempre salutare,» ammisi. «Ma so ringraziare. E so imparare.»

Nico guardò Argo sul materasso, poi me. Era come se stesse cercando di capire se poteva fidarsi davvero.

«Allora… grazie per il vino,» disse, e bevve un sorso. «È… buono.»

«È buono perché oggi non siamo soli,» risposi. E mi venne da ridere piano, perché mi sembrava una frase da prete, ma era vera.

Passammo un’ora così, a parlare senza parlare troppo. Io gli raccontai di quando Argo era giovane e mi trascinava nei campi, io che facevo finta di sgridarlo ma ridevo come un bambino. Nico mi raccontò del suo lavoro nel negozio di animali, dei clienti che vogliono “la razza giusta” come se comprassero una macchina, e di quelli che tornano dopo due mesi perché “abbaia troppo”.

«La gente vuole un cane che non faccia il cane,» disse, e lì dentro c’era un’amarezza adulta, non da ragazzo.

Poi sentimmo un rumore nel corridoio: tacchi. L’amministratrice.

Non la vidi, ma la riconobbi dal passo. In quel condominio, certi suoni sono più famosi dei nomi.

Nico si irrigidì. Io alzai lo sguardo, come uno che ha rubato qualcosa, anche se l’unica cosa che avevo “rubato” era un po’ di pace.

Il passo si fermò davanti alla mia porta. Una pausa lunga. Poi riprese e se ne andò.

Mi resi conto che avevo trattenuto il fiato.

«È lei?» sussurrò Nico.

«È la regina del silenzio,» risposi, e lui fece un sorriso vero, finalmente.

Quella sera, però, Argo iniziò a guaire di nuovo.

Non come prima, non un pianto disperato, ma quel lamento basso e ostinato che ti scava sotto le costole. Io mi alzai dal letto in fretta, inciampai quasi nel tappeto, e lo trovai che tremava leggermente, le zampe dietro rigide come legno.

«Amore mio, amore mio…» gli dissi, accarezzandogli la testa. «Che ti fa male? Dimmi dove…»

Ma Argo non poteva dirmelo. Poteva solo guardarmi con quegli occhi velati e fidarsi.

E io mi sentii di nuovo impotente. La paura tornò a mordermi: il citofono, le lamentele, la parola “quieto vivere” che ti schiaccia il cuore.

Poi mi ricordai che, sopra di me, c’era un ragazzo che ascoltava.

Presi il telefono e, senza pensarci troppo, chiamai il numero che Nico mi aveva lasciato “nel caso servisse”. Mi rispose al secondo squillo, con voce impastata di sonno.

«Giuseppe? Tutto ok?»

«No,» dissi, e la sincerità mi uscì come un singhiozzo. «Non lo so. Argo… sta male. Non so cosa fare.»

Sentii un fruscio, come di lenzuola. Poi passi.

«Arrivo,» disse lui. «Due minuti.»

Due minuti in un condominio sembrano un’ora quando hai paura, ma lo sentii davvero: il portone, le scale, il respiro di uno che scende in fretta. E poi quel bussare forte che avevo chiesto nel biglietto.

Toc. Toc. Toc.

Aprii e Nico era lì, in tuta, con la faccia ancora giovane ma gli occhi già di uno che ha visto certe cose.

«Fammi vedere,» disse.

Non fece domande inutili. Si inginocchiò vicino ad Argo, gli parlò piano, come si parla a qualcuno che capisce anche quando non può rispondere. Poi mi guardò.

«Secondo me è dolore alle anche… o una crisi. È meglio chiamare il veterinario. Lei ha un numero per le urgenze?»

Io annuii, frugando con mani impacciate nei cassetti. Nico mi aiutò a trovare il biglietto del veterinario, compose lui, mi mise il telefono in mano quando risposero.

La voce del veterinario, a quell’ora, era ancora più onesta.

«Giuseppe, portalo qui. Non aspettare.»

Nico mi guardò come se fosse ovvio.

«Lo portiamo.»

«Come?» chiesi, sentendomi vecchio davvero. «Io… non ho più la forza.»

Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬

Scroll to Top