Nico fece un cenno verso la porta.
«Ce l’ho io. E ce l’ha lei. In due, ce la facciamo.»
Portare Argo giù per le scale fu come portare un pezzo di vita. Io reggevo la testa e il petto, Nico le zampe, e ogni gradino era una preghiera muta. Non incontrammo nessuno, solo l’odore umido delle scale e la luce gialla delle lampadine.
Quando tornammo, ore dopo, Argo era sedato quel tanto che bastava per respirare senza piangere. Il veterinario aveva parlato di dolore, di dignità, di scelte da fare con calma e amore, e io avevo annuito con la gola chiusa.
In casa, Nico stese una coperta in più sul materasso, sistemò una ciotola d’acqua vicino, come uno che prepara un nido.
«Stanotte resto sul divano,» disse.
«Ma sei matto?»
«No,» rispose lui, semplice. «Lei è stanco. E Argo… se guaisce, siamo in due a sentirlo. Così non sembra la fine del mondo.»
Mi venne da piangere, ma non volevo fare il melodrammatico. Allora feci l’unica cosa che so fare quando mi si spezza il cuore: apparecchiai.
In cucina, scaldai un po’ di brodo leggero per me e due biscotti secchi per Nico, che li mangiò come se fossero un banchetto. Seduti al tavolo, sentivamo Argo respirare dall’altra stanza. Quel suono era un metronomo: finché c’era, c’era.
«Sai cosa mi ha fatto paura per anni?» dissi a un certo punto, guardando il vapore che saliva dalla tazza. «Non la morte. La solitudine. L’idea che nessuno capisse che un cane è famiglia.»
Nico appoggiò il gomito sul tavolo.
«A me ha fatto paura il contrario,» disse. «L’idea di sentire troppo. Di farmi entrare dentro le cose e poi non riuscire a respirare. Per questo guardo il telefono sulle scale. È un muro. Un muro stupido, ma… mi ha salvato un po’.»
«E oggi?» chiesi.
Lui fece un mezzo sorriso.
«Oggi il muro ha una crepa.»
I giorni successivi passarono lenti e densi, come la nebbia. Argo aveva momenti buoni e momenti cattivi, ma sul materasso dormiva meglio, e io imparai a non vergognarmi più dei suoi versi. Se guaiva, non era un disturbo: era un linguaggio.
Nico veniva spesso, soprattutto la sera. A volte portava qualcosa dal negozio: una coperta più morbida, un tappetino antiscivolo per vicino al letto, un giocattolo che Argo annusava appena ma che sembrava comunque consolarlo.
Una sera trovai un altro biglietto sotto la mia porta, ma stavolta non era di Nico. Era dell’amministratrice, con la sua grafia rigida.
“Si ricorda di mantenere la quiete nelle ore notturne. Diverse segnalazioni.”
Diverse segnalazioni. Quella frase mi fece venire la nausea, come se qualcuno avesse chiamato Argo “rumore”.
Nico lo lesse e strinse la mascella.
«Chi?»
Io alzai le spalle. Non volevo fare nomi. Non volevo trasformare la gentilezza in guerra.
«Lascia stare,» dissi. «Io… mi adeguo. Metto un altro asciugamano. Chiudo tutto. Mi mordo la lingua.»
Nico mi guardò con una calma che non mi aspettavo.
«Giuseppe, con rispetto… no. Non deve nascondere l’amore. Non è una colpa.»
Quelle parole mi colpirono perché erano le mie, dette da un altro. Come se la vita me le rimandasse indietro, più forti.
Il giorno dell’assemblea condominiale arrivò come arrivano le cose che non vuoi: puntuale.
Nella sala comune c’era odore di umido e di detersivo. Le sedie di plastica scricchiolavano. L’amministratrice parlava di bilanci, di pulizie scale, di orari, e io ascoltavo poco. Avevo solo quella frase in testa: “diverse segnalazioni”.
Quando, alla fine, accennò “a un problema di rumori notturni”, sentii il sangue salirmi in faccia. Mi preparai a chiedere scusa ancora prima che mi accusassero.
Ma fu Nico ad alzare la mano.
«Scusi,» disse, e tutti si girarono, come se non lo avessero mai visto davvero. «Il cane del signor Giuseppe è vecchio e sta male. Se guaisce, non è per fare casino. È dolore. E una persona non dovrebbe essere messa alla gogna perché ama un animale che gli ha dato sedici anni di vita.»
Ci fu un silenzio strano, come quando qualcuno dice ad alta voce ciò che gli altri pensavano ma non osavano.
Una signora del secondo piano, che io avevo sempre visto come una nuvola di lacca e perle, si schiarì la gola.
«Io lo sento, sì,» disse. «Ma… preferisco sentire un cane che vive, piuttosto che il silenzio di certi appartamenti dove si urla e poi si fa finta di niente.»
Un altro vicino annuì, quello che mi salutava appena.
«Se serve, possiamo… non so… organizzarci. Magari qualcuno dà una mano. Anche solo per portare su la spesa quando Giuseppe è stanco.»
Mi sentii cedere, come se un peso che portavo da anni mi scivolasse dalle spalle.
L’amministratrice, per la prima volta, non aveva una frase pronta. Si aggiustò gli occhiali.
«Capisco,» disse, secca. «Mi limito a ricordare che…»
«Che siamo esseri umani,» tagliò corto Nico, senza alzare la voce. «E che le regole servono a vivere meglio, non a farci diventare di pietra.»
Quando uscimmo, nel corridoio, io respirai come se avessi fatto una corsa.
«Mi hai difeso,» dissi.
Nico si strinse nelle spalle.
«Ho difeso Argo,» rispose. «E… forse anche me stesso.»
Arrivò dicembre, e con dicembre quel freddo umido che ti prende le ginocchia. Ma in casa mia c’era un’altra temperatura. Nico iniziò a salutare sulle scale, piano, senza esagerare. Io smisi di mettere asciugamani come un ladro.
A Natale, senza fare grandi cose, portai su da Nico una fetta di panettone artigianale e un biglietto semplice. Lui scese la sera del 24 con una bustina di biscotti morbidi per Argo e una bottiglia di spumante “per brindare senza fare casino”.
Bevemmo in due, ridendo piano, guardando Argo che dormiva.
«Sembra… sereno,» disse Nico.
«Lo è,» risposi. «E sai perché? Perché ha capito che non devo fare tutto da solo.»
Passò anche gennaio, e Argo, contro ogni previsione, arrivò alla prima giornata di sole vero. Non era un sole caldo, era un sole pallido, ma bastava.
Con Nico lo portammo nel cortiletto interno, avvolto in una coperta, come un re che esce per farsi vedere dal popolo. Qualcuno dalle finestre salutò. Una bambina del piano terra, che io non sapevo nemmeno abitasse lì, scese con la madre e gli portò una carezza gentile.
Argo aprì gli occhi e fece una cosa che non faceva da tempo: alzò appena il muso verso la luce.
Io sentii un nodo in gola.
«Buon compleanno in ritardo, vecchio mio,» sussurrai. «Te lo sei meritato.»
Nico mi guardò e, senza imbarazzo, mi mise una mano sulla spalla. Non come un ragazzo che consola un vecchio, ma come un amico che sta lì e basta.
Quella sera, tornando su, mi disse una frase che mi rimase addosso.
«Quando sentivo Argo piangere, io pensavo che fosse un problema. Invece era… un campanello. Mi stava dicendo: “Ehi, guarda che qui c’è qualcuno che ha bisogno”.»
«E tu hai risposto,» dissi.
«Sì,» fece lui. «E lei ha aperto.»
In casa, Argo si rimise sul suo materasso e sospirò, quel sospirone lungo che ormai conoscevo come una firma. Io guardai la porta d’ingresso e pensai all’asciugamano della prima sera, alle mani che tremavano, alla vergogna.
Mi alzai, presi l’asciugamano, e lo ripiegai con calma.
Lo misi via in un cassetto.
Non perché Argo non avrebbe più guaito. Ma perché, se avesse guaito, non avrei più dovuto nascondere l’amore. E se qualcuno avesse bussato, stavolta non sarebbe stato per lamentarsi.
Sarebbe stato per chiedere: «Come va il vecchio Argo?»
E io, per la prima volta dopo tanto tempo, avrei risposto senza paura, con la voce piena di casa:
«Va. E finché va, qui dentro c’è vita.»






