“Cancellalo, mamma. Ti prego. Che vergogna.”
La voce di Mattia è poco più di un sussurro rauco, fragile come il ghiaccio sottile. Il suo dito indice trema sopra il tasto sinistro del mouse, pronto a chiudere la finestra del browser per sempre.
Siamo seduti al tavolo della cucina nella nostra villetta a schiera, nella periferia nebbiosa di Milano. Fuori, il vento di dicembre sbatte nevischio contro i vetri, ma qui dentro, sotto la luce bluastra del portatile, l’aria è pesante, quasi irrespirabile per l’ansia.
Sullo schermo vedo la foto che abbiamo caricato esattamente sette minuti fa su un gruppo locale di artigianato. Nessun “Mi piace”. Nessun commento. Solo il silenzio spietato di Internet.
Appoggio delicatamente la mia mano sulla sua, che stringe il mouse come se fosse un’ancora di salvezza. La sua pelle è gelida. “Aspetta ancora un po'”, dico sottovoce. “Solo cinque minuti, Mattia. Per favore.”
Non mi guarda. Ha lo sguardo fisso sul tavolo, le spalle incurvate. Devo essere forte, devo respirare con calma, anche se ho le lacrime agli occhi e il cuore in gola. Perché questa è molto più di una semplice foto di un lavoretto manuale. È molto di più.
Mio figlio non dice una parola a scuola da quattro mesi.
Quattro mesi. Centoventidue giorni.
Tutto è iniziato poco dopo l’inizio della prima media. Mattia ha undici anni ed è autistico. Il suo mondo funziona diversamente; è più rumoroso, più intenso, ma anche pieno di colori e forme che gli altri ignorano. L’aula di Arte e Immagine era sempre stata il suo rifugio, l’unico posto dove non era “quello strano”, ma un creatore.
Fino a quel maledetto martedì di settembre. La sua nuova professoressa – una donna che metteva la disciplina sopra la creatività – ha preso il suo progetto davanti a tutta la classe.
“Siamo alle medie, Mattia”, ha detto con freddezza. “Qui impariamo tecnica e proporzioni. I tuoi progetti sono troppo infantili per questo livello. Non siamo più all’asilo.”
La classe ha ridacchiato. Un suono crudele. Durante l’intervallo hanno iniziato a chiamarlo “lo strano dei lavoretti”.
Da quel momento, Mattia si è spento. Ha smesso di raccontarmi le sue idee. Ha smesso di disegnare. Tornava a casa, lanciava lo zaino, andava in camera sua e chiudeva la porta. I colori erano spariti dalla nostra vita.
Ma due giorni fa, tornando tardi dal lavoro, ho visto la luce accesa in garage. Lì c’era lui. Faceva un freddo cane, ma Mattia non indossava il giubbotto. Era circondato da un caos di palline di polistirolo, ritagli di stoffa, fil di ferro e vecchi colori che aveva recuperato dalle mie scatole degli scarti.
Aveva le mani sporche di pittura grigia e bianca. Era lì seduto da sei ore. Senza mangiare. Senza bere. Solo lui e la sua creazione.
Davanti a lui, sul banco da lavoro, c’erano due figure. Non erano comuni pupazzi di neve. Erano vivi.
Il pupazzo di sinistra era sfumato di grigio, con la testa inclinata e uno sguardo di profonda concentrazione rivolto verso le sue mani vuote. Sembrava solitario, pensieroso. Era Mattia stesso.
Il pupazzo di destra era più piccolo, più rotondo e brillava di un rosa tenue. Emanava un calore che sembrava riempire la stanza gelida. Indossava una sciarpa minuscola. Mi sono avvicinata e ho trattenuto il respiro. La sciarpa non era di lana. Era fatta di centinaia di petali di fiori secchi e fili d’erba, incollati e verniciati uno ad uno.
“È Viola”, ha sussurrato all’improvviso.
Viola è la sua sorellina, sette anni. È l’unica che non lo forza mai a parlare. Ogni giorno, quando torna da scuola, gli porta qualcosa che trova per strada: una margherita, una bella foglia, un sasso liscio. Lo lascia semplicemente davanti alla sua porta. Mattia aveva conservato ognuno di quei regali. E ora, la sua bambina di neve indossava una sciarpa fatta dell’amore di sua sorella.
“Mi porta i fiori”, ha detto piano, fissando la piccola figura. “Perché non abbia freddo.”
Era la prima volta da settembre che creava qualcosa. Non per un voto. Non per un professore. Ma perché la sua anima traboccava e doveva farlo.
Quando ha finito, mi ha chiesto con paura: “Sembrano stupidi, mamma? Mi prenderanno in giro di nuovo?” Gli ho detto la verità: “Sono la cosa più bella che abbia mai visto. Sono arte pura.”
Ci sono voluti due giorni per convincerlo a condividerli. E ora siamo qui. Il portatile ronza. “Il tempo è scaduto”, dice Mattia con voce spenta. “A nessuno piace. La prof aveva ragione.” Sposta il cursore su “Elimina”. Voglio fermarlo, ma so che le parole non bastano.
Ma all’improvviso… Ping.
Un pallino rosso. Una notifica. Mattia si blocca. Clicca, quasi controvoglia. È un commento. Di un utente chiamato Mastro_Enzo. La sua foto profilo mostra un signore anziano con un grembiule di cuoio, in una bottega piena di legno.
Mattia si china e legge ad alta voce, lentamente: “Giovanotto… faccio l’artigiano da 40 anni. Ho visto tanta tecnica e superfici perfette. Ma i tuoi pupazzi… hanno un’anima. Lo sguardo della figura a sinistra mi commuove. E l’idea dei fiori secchi veri? Questi non sono ‘lavoretti’ scolastici. Questa è Arte. Hai il cuore di un vero artista. Per favore, non smettere mai di creare.”
Silenzio. E poi, di nuovo. Ping. E Ping. Lo schermo si riempie.
“Che meraviglia! Si vede l’amore in ogni dettaglio.” “La sciarpa mi ha fatto piangere. È stupendo.” “Li vendi? Vorrei qualcosa di così autentico nel mio salotto.”
Mattia resta immobile. I suoi occhi si riempiono di lacrime. Si gira lentamente verso di me. L’espressione vuota degli ultimi mesi è svanita. “Ha detto… che è arte”, sussurra.
In quel momento si apre la porta. Viola appare in pigiama, mezza addormentata. Vede la foto sullo schermo, corre verso suo fratello e, senza dire una parola, si arrampica sulle sue ginocchia e gli avvolge il collo con le sue braccia sottili. Mattia espira profondamente, rilassa le spalle e stringe forte la sua sorellina.
Mi guarda sopra la testa di Viola. Un sorriso timido, ma vero, attraversa il suo viso. “Mamma?”, chiede dolcemente. “Forse… forse domani ne faccio un altro. Uno grande. Per te.”
Annuisco mentre le lacrime mi rigano le guance. Quattro mesi di silenzio sono finiti. A volte non servono grandi parole o voti perfetti. A volte bastano un po’ di polistirolo, fiori secchi e il coraggio di mostrare al mondo chi sei veramente.
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