Quando il Silenzio di Mattia si Spezzò per Due Pupazzi di Neve

Il mattino dopo mi svegliai prima della sveglia, come se i “ping” della sera precedente mi fossero rimasti sotto pelle.

In casa regnava ancora il buio, e fuori la periferia milanese era impastata di nebbia e freddo, ma dentro di me qualcosa aveva cambiato consistenza: non era più solo paura, era paura mescolata alla possibilità.

In cucina il portatile era ancora sul tavolo, chiuso come una scatola che poteva contenere una bomba o un dono. Mattia era già seduto, in pigiama, con le spalle un po’ incurvate e lo sguardo fisso sul coperchio, come se temesse che aprendolo tutto sarebbe evaporato.

Accanto, una margherita un po’ stanca era appoggiata vicino alla tazza: il tipo di offerta silenziosa che solo Viola sapeva fare.

Mattia non parlò subito. Aprì lo schermo e la luce azzurrina gli scivolò sul viso, ma stavolta non sembrava un riflettore crudele: sembrava una piccola lampada accesa in un corridoio.

Le notifiche erano aumentate, i commenti anche, e c’erano pure messaggi privati, però lui rimase immobile per alcuni secondi, come se persino respirare troppo forte potesse rovinare tutto.

Poi, con la voce bassa e ruvida che usa quando è agitato, mormorò:

“Se rispondo… sbaglio?”

Scossi la testa piano, cercando di muovermi senza invadere il suo spazio. Presi una tazza e versai il tè con attenzione, perché le mani mi tremavano appena e non volevo che lo notasse.

“No. Possiamo farlo insieme, se vuoi.”

Lui annuì una sola volta. Il suo indice si avvicinò al trackpad e cliccò sul messaggio di Mastro_Enzo.

Lessi e sentii il cuore stringersi e, allo stesso tempo, allargarsi. Non era un complimento buttato lì, non era una frase da social: era un invito.

“Se vi va, passate in bottega. Non per vendere, non per esporre. Solo per farvi vedere che l’arte vera non chiede permesso a nessuno. Il caffè lo offro io.”

Rimasi ferma. Un invito così semplice, eppure nella mia testa si accese una folla di “e se”: e se Mattia si spaventa, e se non regge lo sguardo degli altri, e se è una delusione, e se riapre una ferita.

Mattia sollevò gli occhi su di me, e in quello sguardo c’era qualcosa che non vedevo da mesi: una domanda vera, non un ritiro. Una fessura nel muro.

“È lontano?” chiese.

“Dice zona sud. Non è lontano. Ci andiamo quando vuoi.”

Lui strinse le labbra, come se stesse sistemando dentro di sé un meccanismo delicatissimo. Poi si alzò e, senza aggiungere altro, andò verso il garage.

Lo seguii con il cuore in gola. Sul banco da lavoro i due pupazzi di neve erano lì, immobili e vivi insieme, come due persone che aspettano senza giudicare.

Accanto a loro c’era qualcosa di nuovo: una sfera di polistirolo più grande, ancora grezza, e una scatolina con petali secchi e fili d’erba selezionati come fossero perle. Mattia appoggiò le dita sulla sfera, con un gesto che somigliava a una carezza.

“Uno grande,” sussurrò. “Per te.”

Non trovai parole che non fossero troppo. Annuii, soltanto. Se avessi parlato, sarei scoppiata in lacrime e lui avrebbe sentito quella mia emozione come un peso, e quando Mattia sente peso si chiude.

Più tardi Viola si svegliò e arrivò in garage con i capelli arruffati e le calze spaiate. La prima cosa che fece fu controllare la sciarpina di petali. Poi guardò suo fratello come se il mondo fosse finalmente tornato al posto giusto.

“A loro piace?” mi chiese sottovoce, come se fosse un segreto.

“Sì, amore. A tanta gente piace.”

Viola spalancò gli occhi e si voltò verso Mattia con l’entusiasmo pronto a esploderle addosso, ma si fermò a metà strada. Come se avesse capito da sola che doveva essere gentile. Gli prese la mano e se la portò alla guancia, piano.

Mattia non si ritrasse. E per noi, quello era già tantissimo.

La prima ferita arrivò nel modo più banale: un commento cattivo, infilato tra i tanti complimenti come una scheggia. Una frase breve, velenosa.

“Che tristezza. Sembra roba da asilo.”

Lo vidi irrigidirsi. Mattia non diventa rosso, non si arrabbia: si spegne. Il suo indice tornò sul mouse, lo stesso tremore della sera prima, pronto a cancellare tutto come si cancella una macchia.

Mi avvicinai, ma non dissi “non ci pensare”, perché quelle parole non funzionano con lui. Mattia sente tutto. Sente anche le cose che gli altri ignorano.

“Lo tolgo?” chiese, più a se stesso che a me.

Respirai a fondo. Guardai lo schermo e poi guardai lui.

“Possiamo segnalarlo e basta,” dissi. “E possiamo anche scegliere di non leggere tutto. Non dobbiamo farci del male per dimostrare niente.”

Lui rimase fermo per un attimo che mi parve infinito. Poi, lentamente, spostò il cursore e non cliccò su “Elimina”. Chiuse la finestra.

Fu un gesto minuscolo. Ma era un gesto suo. Una scelta.

Nel pomeriggio arrivò un altro messaggio di Mastro_Enzo, asciutto e pratico.

“Se venite, portate una foto. I pupazzi sono delicati. La strada, con questo tempo, non perdona.”

Mi scappò un sorriso amaro e tenero insieme. Era vero. Il nevischio, l’umidità, le buche. Milano in inverno sa essere bellissima e dura nello stesso momento.

Quella sera preparai una cartellina con le stampe della foto, come se dovessimo andare a un appuntamento importante. Mattia le controllò una per una: i colori, le ombre, la sciarpina, lo sguardo della figura grigia. Non voleva che un dettaglio venisse tradito da una stampa scadente.

Quando ebbe finito, sollevò gli occhi.

“Parli tu?” chiese.

“Se vuoi, sì. Tu puoi solo guardare. Non devi dire niente.”

Annuii, ma poi lo sentii aggiungere, quasi senza voce:

“Se mi chiede… io non so.”

Mi venne istintivo dirgli che andava bene, che non doveva. Invece dissi la cosa più semplice e più vera.

“Allora respiriamo. E se le parole non arrivano, va bene lo stesso.”

La mattina dopo uscimmo. Milano sembrava un disegno fatto con la grafite: palazzi sfumati, alberi spogli, asfalto lucido. In macchina Mattia teneva la cartellina sulle ginocchia come un oggetto fragile e prezioso.

Viola insistette per venire. Si sedette dietro e portò una piccola scatola.

“Ho portato fiori,” annunciò, orgogliosa.

“Che fiori?” chiesi, concentrata sulla strada.

Viola sollevò appena il coperchio. Dentro c’erano petali secchi, fili d’erba e una fogliolina rossa come una goccia.

“Per la sciarpa nuova,” disse. “Quella grande.”

Mattia non si voltò, ma le sue spalle si mossero leggermente, come se avesse inspirato più a fondo. Era il suo modo di dire: ho capito.

La bottega di Enzo era in una via stretta, con una vetrina vecchia e un’insegna semplice. Dentro l’aria era calda e profumava di legno, cera e colla. Un odore che ti entra nel petto e ti fa pensare, senza sapere perché, che esistono ancora posti dove le mani contano.

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