Quando l’Amore Ritorna su Quattro Zampe e Cambia Due Vite per Sempre

Pensavo che, con l’arrivo di Luna, la nostra storia avesse trovato il suo lieto fine. Mi sbagliavo: quella era solo la prima parte.

La seconda è iniziata il giorno in cui ho capito che l’amore non serve solo a riempire il presente, ma anche a fare pace con il futuro.

Passarono i mesi, lenti e pieni di piccole abitudini nuove.

Quando andavo a trovare mia madre, la trovavo spesso in cucina, appoggiata al tavolo, mentre sbriciolava un biscotto in una ciotolina.

«Non glieli do tutti i giorni», diceva, facendo finta di giustificarsi. «Solo quando ha fatto la brava.»

Luna, naturalmente, “faceva la brava” quasi sempre.

La casa era cambiata. Non c’era più quel silenzio sospeso che mi aveva fatto paura dopo la morte di Bella. Ora si sentivano unghiette sul pavimento, un sospiro sul tappeto, qualche abbaio quando il postino chiudeva troppo forte il cancello.

Mia madre parlava più spesso, anche da sola. A volte la sentivo dalla stanza accanto: raccontava a Luna delle sue giornate di ragazza, delle estati nei campi, dei balli alla festa del paese. La voce aveva di nuovo quelle sfumature vivaci che ricordavo dall’infanzia.

Poi arrivò la primavera, e con lei il compleanno di mia madre: ottantanove anni compiuti, “e mezzo” come ci teneva a sottolineare ridendo.

Decidemmo di festeggiare in modo semplice: una torta, due vicine, un mazzo di fiori sul tavolo. Luna, con un fiocchetto storto sul collare, si aggirava tra le sedie come se stesse controllando che fosse tutto in ordine.

«Sai», mi disse mia madre dopo che gli ospiti erano andati via, «se me lo avessero detto l’anno scorso che avrei festeggiato con un’altra cagnolina, non ci avrei creduto. Pensavo di essere… finita.»

Restammo in silenzio per qualche secondo.

Poi aggiunse, guardando Luna che dormiva in un raggio di sole:

«Invece mi sento… in mezzo. Non all’inizio, non alla fine. In mezzo a qualcosa che ha ancora senso.»

Fu una frase che mi si piantò nel cuore.

Qualche settimana dopo, però, la paura tornò a bussare.

Era una mattina qualunque. Mia madre stava annaffiando i gerani sul balconcino, con Luna accanto. Io ero al lavoro quando squillò il telefono: era la vicina.

«Devi venire subito», disse con la voce rotta. «Tua mamma è caduta. Hanno chiamato l’ambulanza.»

Il mondo, per un attimo, si strinse in un punto minuscolo.

Quando arrivai, l’ambulanza era ancora lì. Mia madre era già sulla barella, pallida ma lucida. Luna, trattenuta al guinzaglio dalla vicina, piagnucolava e cercava di saltarle addosso.

«Non è niente», mormorò mia madre, vedendomi. «Solo un giramento di testa.»

Lo disse con quella calma ostinata che usava quando si trattava di se stessa. Ma le sue mani tremavano più del solito.

Luna si dimenava, tirava il guinzaglio, guaiva. Una volontaria dell’ambulanza si chinò a carezzarla.

«È molto legata a lei», disse. «Si vede.»

Dovetti prendere una decisione in pochi secondi.

«Porto Luna a casa mia per qualche giorno», dissi a mia madre. «Finché non torni. Ti prometto che la porto a trovarti appena sarà possibile.»

Negli occhi di mia madre passò un’ombra che non dimenticherò mai.

«Non lasciarla sola troppo a lungo», sussurrò. «Ha già perso una casa.»

All’ospedale dissero che il cuore era affaticato, la pressione ballerina. “Normale, alla sua età”, ripetevano i medici, ma quella parola — normale — non mi consolava affatto.

Le prime notti a casa mia, Luna vagava inquieta. Annusava ogni angolo, si sdraiava vicino alla porta, poi si rialzava. Alla fine portò una delle mie pantofole sul tappeto e ci si accovacciò sopra, come se cercasse un odore familiare che non trovava.

Andammo a trovare mia madre il terzo giorno.

Dopo qualche insistenza, il personale ci permise di portare Luna nel cortile interno, davanti alla finestra della stanza. Mia madre era seduta su una sedia, coperta da una vestaglia azzurra. Appena vide Luna, le si illuminarono gli occhi.

«Eccola la mia signorina!» esclamò, alzandosi un pochino.

Aprirono la finestra per qualche minuto. Luna, con le zampette sulle ginocchia di mia madre, la guardava fisso, come per contare le rughe una per una per assicurarsi che fosse davvero lei.

«Vedi che non ti ho lasciata?» le sussurrò mia madre. «Sono qui. E tu sei qui.»

Fu allora che, per la prima volta, accettai davvero l’idea che un giorno, forse non lontano, quella scena avrebbe avuto un finale diverso.

E che avrei dovuto essere pronto.

Quella sera, quando rimanemmo soli io e mia madre, lei mi guardò con uno sguardo serio, quasi solenne.

«Devo chiederti una cosa», disse.

Sapevo già di cosa si trattava.

«Se un giorno… io dovessi andarmene prima di lei…»

Fece una pausa, come se cercasse la parola giusta.

«Promettimi che non la rimanderai in un rifugio. Che non la considererai un peso.»

«Mamma», iniziai, «lo sai che…»

Mi interruppe con un gesto della mano.

«Non voglio frasi gentili. Voglio una promessa vera. Di quelle che fanno male, se non le mantieni.»

La guardai. Era la stessa donna che da bambino avevo visto affrontare problemi, conti da pagare, malattie, senza mai chiedere nulla.

Ora era lei a chiedere. E io non avevo più dieci anni.

«Te lo prometto», dissi. «Se un giorno Luna dovesse restare senza di te… verrà a casa mia. Sarà la mia famiglia. Non finirà mai da sola.»

Gli occhi le si riempirono di lacrime.

«Allora posso stare tranquilla», sussurrò. «Adesso sì, posso amarla senza paura.»

In quel momento compresi qualcosa che non avevo mai capito davvero: non è la vecchiaia che ci fa paura. È l’idea di lasciare indietro chi amiamo senza protezione.

Mia madre tornò a casa dopo qualche giorno, più debole, ma sollevata.

La prima cosa che fece fu sedersi sulla poltrona. Non disse una parola: allargò semplicemente le braccia, e Luna le saltò in grembo, con una delicatezza quasi umana.

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