Nei mesi successivi organizzammo la vita in modo diverso.
Io andavo più spesso, le vicine si erano affezionate a Luna e la portavano a fare un breve giro quando il tempo era buono. La signora Conti del rifugio passava ogni tanto per un caffè e una chiacchierata, felice di vedere che “il suo abbinamento” aveva funzionato così bene.
«È come un’adozione a catena», scherzò un giorno. «Prima voi adottate il cane, poi il cane adotta il vostro cuore, e alla fine tutti adottiamo un po’ la vostra mamma.»
In paese, la gente aveva imparato a riconoscere quel trio curioso: una signora anziana con il bastone, una cagnolina tranquilla che le camminava accanto, e spesso me, che chiudevo la fila con una borsa della spesa.
Un pomeriggio, mentre tornavano dal piccolo parco vicino a casa, una bambina si avvicinò a mia madre.
«Signora, quanti anni ha il suo cane?» chiese.
«Dodici», rispose lei.
«Allora è vecchia», commentò la bambina con la sincerità crudele e limpida dei bambini.
Mia madre sorrise.
«Anche io sono vecchia. Siamo vecchie in due. Ma sai una cosa? Quando stiamo insieme, ci sentiamo… meno vecchie.»
La bambina la guardò per qualche secondo, poi accarezzò Luna con delicatezza.
«Allora siete fortunate», disse. «Perché potete tenervi compagnia.»
Quella sera, al telefono, mia madre mi raccontò l’episodio ridendo.
«Vedi?» disse. «Non è poi così complicato. I bambini lo capiscono subito. Siamo tutti un po’ soli. Ma se trovi qualcuno che ti tiene la zampa — o la mano — la vita fa meno paura.»
Ogni volta che riattacco il telefono ora, ho un pensiero in più. So che un giorno ci sarà l’ultima telefonata, l’ultima passeggiata, l’ultima volta che vedrò mia madre seduta sulla poltrona con Luna addormentata sulle gambe.
Ma non mi paralizza più come prima.
Perché ho imparato da lei che l’amore non va misurato in anni, ma in giorni in cui abbiamo avuto il coraggio di scegliere la vicinanza invece della paura.
Quando vado a trovarla, la vedo persino scherzare su ciò che prima la terrorizzava.
«Se me ne vado prima io», mi dice, accarezzando Luna, «lo so che piangerete tutte e due. Ma promettimi una cosa: non smettere di volerle bene solo perché ti farà male perderla un giorno. L’errore più grande che ho fatto è stato quello di pensare che, per non soffrire, fosse meglio non amare più.»
La guardo, con la finestra che inquadra le colline toscane sullo sfondo, e penso che, in fondo, questa seconda parte della storia non parla solo di una signora di ottantanove anni e di una cagnolina di dodici.
Parla di ognuno di noi, di quella tentazione di chiuderci per non soffrire più.
E di quanto sia rischioso, invece, non aprire la porta quando la vita, un giorno, bussa con un muso umido e due occhi stanchi che ti chiedono solo una cosa: restiamo insieme, anche se solo per un po’?
Mia madre dice che non ha più paura del futuro.
«Non ho un “per sempre” da promettere a Luna», ripete. «Ma le posso promettere oggi. E oggi, per me, basta.»
Guardandole sedute sulla poltrona — una testa bianca e una testolina marrone appoggiate una all’altra — capisco che aveva ragione fin dall’inizio:
Non è mai troppo tardi per ricominciare a vivere.
E, a volte, il nuovo inizio arriva su quattro zampe, quando ormai eri convinto che per te ci fossero rimasti solo finali.






