Quando l’Amore Sopravvive all’Addio: la Storia di Due Cani e di un Cuore che Ricomincia

Nessuno mi aveva detto che il giorno dopo sarebbe stato persino peggiore: non c’erano più iniezioni, veterinari o firme da dare, solo una casa intera che sembrava urlare il suo nome ogni volta che aprivo una porta.

Quella mattina all’ambulatorio pensavo di aver toccato il fondo; invece, il vero precipizio è cominciato dopo, quando ho dovuto imparare a vivere in un appartamento dove ogni silenzio aveva la forma di Rocco.

Per qualche giorno ho vissuto in automatico.

Mi alzavo, preparavo il caffè, appoggiavo la tazza sul tavolo e solo allora mi rendevo conto che non c’erano più i suoi passi dietro di me, quel rumore di unghie sul parquet che segnava l’inizio di ogni giornata.

Continuavo a fare gli stessi gesti di sempre.

Aprivo l’armadio dell’ingresso e la mano cercava il guinzaglio, trovando solo il vuoto.

Ogni volta chiudevo di scatto, come se nessuno avesse visto quel riflesso ridicolo.

Il balcone era diventato il mio centro di gravità.

La piantina, con il collare di Rocco nascosto sotto la terra, era l’unico punto fermo che avevo.

La innaffiavo due volte al giorno, come se da quella cura dipendesse non solo la sua sopravvivenza, ma anche la mia.

Una sera, mentre sistemavo delle scatole che avevo sempre rimandato di aprire, ho trovato un vecchio quaderno.

Era il mio quaderno di quando facevo il corso serale di scrittura creativa, molti anni prima.

Sulla copertina avevo incollato una foto di Rocco cucciolo, con le orecchie troppo grandi e gli occhi che sembravano chiedere scusa per esistere.

L’ho aperto.

Tra appunti e frasi senza senso, c’era una pagina intera dedicata a lui.

“Leale oltre il necessario.

Capace di riconoscere il rumore dei miei passi dal pianerottolo.

L’unico che non se ne va quando smetto di sorridere.”

Ho sentito un nodo in gola.

Quella versione di me, che scriveva di lui quando era giovane, non immaginava che un giorno avrei dovuto decidere di lasciarlo andare.

I giorni passavano lenti, ma fuori il mondo andava avanti.

Al lavoro cercavano di trattarmi “con tatto”: una collega mi aveva detto, con il tono di chi fa un complimento, che “alla fine era solo un cane”.

Le ho sorriso per educazione, ma dentro ho sentito uno strappo.

Una sera, tornando a casa, ho trovato un volantino infilato nella buca delle lettere.

“Cercasi volontari per canile comunale – Torino nord”.

Ho quasi buttato il foglietto insieme alla pubblicità del supermercato, poi mi sono fermata.

L’idea di entrare in un canile senza Rocco mi sembrava un tradimento.

Come se il mio dolore fosse una stanza chiusa a chiave, e aprirla per altri cani significasse lasciarlo indietro.

Quella notte non ho dormito.

Mi rigiravo nel letto, ascoltando il rumore lontano dei tram e dei motorini.

Mi sembrava di sentire il suo respiro affaticato nella stanza accanto, poi ricordavo che non c’era più e il cuore mi cadeva nello stomaco.

Verso le tre del mattino, ho preso il cellulare.

Sono entrata sul sito del rifugio che avevo guardato il giorno in cui Rocco se n’era andato.

C’era ancora quel cane bianco e nero, dodici anni, abbandonato dopo un trasloco.

Mi fissava dallo schermo con un’aria confusa.

Aveva le macchie sugli occhi, come se qualcuno gli avesse disegnato degli occhiali storti.

Sotto la foto, poche parole: “Si chiama Tito. È calmo, abituato alla casa, ama le persone. Non capisce perché non lo voglia più nessuno”.

Ho sospirato.

Non ero pronta.

Non ancora.

Il giorno dopo, tornando dal lavoro, ho incontrato la mia vicina di pianerottolo, la signora Rosa.

Avrà settant’anni, sempre con lo stesso grembiule a fiori e le pantofole di lana.

«Elena, non sento più abbaiare», ha detto piano, come se temesse la risposta.

Ho deglutito.

«Rocco se n’è andato», ho mormorato. «Era troppo stanco.»

Lei ha annuito, gli occhi lucidi dietro gli occhiali.

«Il mio Bruno se n’è andato dieci anni fa.

Per due anni mi svegliavo ancora pensando di doverlo portare giù.

Poi un giorno ho capito che continuavo a vivere come se lui fosse morto due volte: la prima in ambulatorio, la seconda ogni volta che lo cancellavo dal presente.»

Quelle parole mi sono rimaste addosso.

Come si fa a non cancellare qualcuno che non c’è più?

Quella sera sono rimasta più a lungo del solito sul balcone.

Il cortile era silenzioso, interrotto solo dal rumore delle stoviglie proveniente da qualche cucina.

Ho guardato il vaso della pianta.

«Sei ancora qui, vero?», ho sussurrato.

Mi sono sentita sciocca, ma anche stranamente sollevata.

Una domenica, dopo una settimana particolarmente vuota, ho preso una decisione.

Mi sono vestita, ho preso la borsa e sono uscita, evitando di guardare il gancio vuoto dove un tempo pendeva il guinzaglio di Rocco.

Ho preso la metro, poi l’autobus.

Avevo il volantino del canile in tasca, stropicciato.

Durante il tragitto, avrei voluto scendere mille volte, tornare indietro, chiudermi in casa e fingere che fosse stato solo un impulso.

Il canile era alla periferia della città, dietro un campo sportivo.

Odore di erba bagnata e di disinfettante.

Mentre mi avvicinavo, sentivo abbaiare da lontano: voci diverse, acute, gravi, impazienti.

Alla reception, una ragazza con i capelli ricci mi ha sorriso.

«Buongiorno. Cercava qualcuno?»

Ho respirato profondamente.

«Cercavo… non lo so. Forse posso dare una mano. O magari solo… vedere i cani anziani.»

La ragazza ha ammorbidito lo sguardo.

«Si chiama Anna. Io sono Anna. Vieni, ti faccio vedere il reparto dei nonni.»

Nonni.

Mi è piaciuta quella parola.

Camminando lungo il corridoio, i cani saltavano, abbaiavano, qualcuno ringhiava per paura.

Mi sentivo sopraffatta.

Poi, in un box in fondo, l’ho visto.

Bianco e nero, macchie sugli occhi, sguardo calmo.

Un cartellino con scritto “Tito – 12 anni”.

Non si è messo ad abbaiare.

Si è alzato lentamente, è venuto verso la rete e si è semplicemente seduto.

Mi ha guardata come se stesse aspettando che fossi io a presentarmi.

«Questo è Tito», ha detto Anna. «È qui da quasi un anno. È bravo, ma tutti vogliono cuccioli. O almeno cani “giovani”.»

Ho sentito qualcosa muoversi nello stomaco.

Mi sono accovacciata e ho infilato le dita tra le sbarre.

Lui ha annusato, poi ha appoggiato il muso sulla mia mano.

Per un momento ho chiuso gli occhi.

Ho sentito di nuovo l’odore di fieno umido del rifugio di quattordici anni fa, quando mi avevano messo in braccio Rocco.

Lo stesso tremore, la stessa fiducia cieca.

Ho ritratto la mano di scatto, come se mi fossi bruciata.

«Non posso», ho sussurrato.

«Sto ancora piangendo il mio cane.

Non sarebbe giusto.»

Anna non ha insistito.

«Capisco.

Ma sa, spesso sono proprio le persone come lei a diventare le migliori compagne per i cani anziani.

Perché sanno già cosa significa accompagnare fino alla fine.»

Sono tornata a casa con il cuore pieno e le mani vuote.

Sul balcone, la pianta di Rocco aveva messo una foglia nuova.

L’ho sfiorata con le dita.

Quella notte ho sognato Rocco.

Era giovane, correva lungo il Po, voltandosi ogni tanto per controllare se lo seguissi.

Accanto a lui, correva un cane bianco e nero con le macchie sugli occhi.

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