Avevo cinquant’anni quando Marco ha deciso di “cercare se stesso”. Non con me. Ma con una ragazza che aveva l’età di nostra figlia.
Me lo ha detto un martedì sera, con quella serietà solenne di chi sta per annunciare una grande verità filosofica. Ha detto che aveva bisogno di aria. Di “libertà”. Che voleva finalmente vivere per se stesso, lontano dalla routine borghese che, a suo dire, lo soffocava.
Non ho urlato. Non ho lanciato i piatti del servizio buono, quello della lista di nozze, contro il muro. Non per orgoglio. Ma per sfinimento.
Era la stanchezza profonda di chi, per venticinque anni, ha retto in piedi la baracca. La stanchezza di ricordare i compleanni di sua madre, di prenotare le visite mediche, di sapere sempre dove fossero le bollette del gas, mentre lui viveva tra le nuvole. I suoi eterni “Ops, me ne sono dimenticato” significavano sempre una cosa sola: “Tanto ci pensa Anna”.
Quando ha chiuso la valigia – quella in pelle che gli avevo regalato per il nostro anniversario –, si è girato sull’uscio e mi ha chiesto, quasi con pietà: “E tu, Anna? Che farai adesso?”
L’ho guardato. Per la prima volta non vedevo mio marito, ma un estraneo brizzolato che scappava dalle sue responsabilità. “Vivere, Marco”, gli ho risposto con una calma che ha sorpreso persino me. “Fare quello che non ho mai avuto tempo di fare mentre badavo a te.”
La porta si è chiusa. Nessun tonfo. Solo un clic secco nel silenzio del corridoio.
Il giorno dopo era domenica. In Italia, la domenica pomeriggio ha un sapore agrodolce. Dalle finestre aperte dei vicini entrava l’odore del soffritto e del ragù che cuoceva da ore, il rumore delle stoviglie, le voci delle famiglie riunite. Il silenzio in una casa vuota, mentre fuori tutti pranzano insieme, è assordante.
Sono scesa nell’atrio. Sul citofono, l’etichetta in ottone diceva: Famiglia Rossi – Marco e Anna.
Ho preso un cacciavite dalla cassetta degli attrezzi. Ho svitato la targhetta. Con un pennarello indelebile, su un pezzo di carta provvisorio, ho scritto solo: Anna Bianchi. Il mio cognome da nubile. Sembrava una cosa da niente. Ma vederlo lì, nero su bianco, mi ha dato una scossa. Non ero più la “signora Rossi”. Ero io.
Il lunedì sono andata al supermercato rionale. Per abitudine, la mia mano è andata dritta al bancone dei salumi per prendere il salame piccante e quel gorgonzola forte che Marco adorava. Mi sono fermata. Io odio il gorgonzola. E il piccante mi dà acidità.
Ho guardato il carrello: vino rosso corposo (il suo preferito), olive nere (che io scarto sempre). Sono rimasta impietrita in mezzo alla corsia. Mi sono resa conto di essermi annullata così tanto nei suoi gusti da aver dimenticato che sapore avesse la mia vita.
Ho rimesso tutto a posto. Sono uscita senza comprare nulla, ma con il cuore che batteva all’impazzata.
Quel pomeriggio non sono tornata a casa. Sono andata dal parrucchiere in centro. “Tagliamo tutto”, ho detto. “Voglio un taglio corto, sbarazzino”. Poi, sono entrata in quel bar storico in piazza, quello con i tavolini all’aperto dove non osavo mai sedermi da sola perché mi sembrava triste.
“Un tavolo per uno?” ha chiesto il cameriere in gilet nero. “Sì. Al sole, per favore.”
Accanto a me, una signora anziana, elegantissima, con un filo di perle e un rossetto rosso impeccabile, sorseggiava uno Spritz leggendo il giornale.
Avrà avuto settantacinque anni e una classe d’altri tempi. Mi ha vista esitare davanti alla vetrina dei dolci. “Prenda il Babà”, mi ha detto con un sorriso complice. “È la fine del mondo. E lasci perdere la dieta, alla nostra età la dieta è un crimine.”
Ho sorriso, un po’ imbarazzata. “Le sembra adatto? Sa… è strano stare qui da sola.”
Lei ha posato il bicchiere. “Tesoro, mio marito se n’è andato vent’anni fa. Infarto. Puff, finito. Credevo di morire con lui. Ma sa cosa ho scoperto?
Che noi donne passiamo metà della vita a chiedere scusa di esistere e l’altra metà a servire gli altri.” Si è avvicinata un po’, come per confidarmi un segreto. “Non si accontenti delle briciole, signora mia. Si mangi tutta la torta. Se lo merita.”
Ho ordinato il Babà al rum. E un bicchiere di Prosecco. Mi sono sentita viva.
Due settimane dopo, Marco è tornato a prendere il resto delle sue cose. Probabilmente si aspettava di trovarmi distrutta, in vestaglia, con gli occhi gonfi di pianto e la casa nel caos.
Ha trovato un salotto luminoso, con le finestre spalancate. Avevo tolto i suoi vecchi quadri cupi e messo un vaso enorme con dei girasoli freschi. La casa profumava di caffè appena fatto e di bucato pulito. Io ero in poltrona, leggevo un libro, tranquilla.
È rimasto sulla soglia, con gli scatoloni in mano, spiazzato. “Ti trovo… diversa”, ha balbettato. “Sto bene, Marco”, ho risposto sorridendo. Ed era vero.
Cercava un rimprovero, una scenata tipica italiana. Ma ha trovato solo pace. “Non ti manco?” ha chiesto, con l’ego un po’ ferito.
“All’inizio sì”, ho ammesso. “Ma poi ho capito che non ero sola. Ero libera. Grazie per essertene andato, davvero. Mi hai restituito i miei spazi.”
Se n’è andato a testa bassa. Quella sera, quello che sembrava vecchio e perso era lui, non io.
Quella notte ho aperto il computer. Non sono andata sui social per spiare la sua nuova vita da “eterno ragazzino”. Sono andata su un sito di viaggi.
Parigi? No. Troppo banale. Lisbona? Troppo vicina, troppo simile al nostro caos latino. Volevo il silenzio. Volevo un posto dove l’aria ti entra nei polmoni come cristallo e ti pulisce l’anima. Ho guardato a Nord, ai confini della mappa. L’Islanda.
Ho comprato un biglietto. Volevo vedere l’Aurora Boreale danzare nel buio. Volevo immergermi nelle acque termali mentre fuori la terra è ghiacciata. Da sola? No. Con la persona più importante della mia vita, quella che avevo trascurato per troppo tempo: me stessa.
Perché a volte, la vera rinascita non inizia tra le braccia di un altro uomo. Inizia quando una donna decide di non avere più paura del freddo. Quando capisce che il suo cuore può brillare più di qualsiasi luce nel cielo.
E una cosa è certa: Non chiede più le briciole. Si siede di fronte all’universo intero e si gode lo spettacolo.
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