Quando Lui Scappa con una Ragazzina, Lei Rinasce Sotto l’Aurora

Se avete letto la prima parte, sapete com’è finita quella sera: una porta chiusa senza rumore, e una donna rimasta in piedi, finalmente. Quando ho comprato il biglietto per l’Islanda, non stavo prenotando una vacanza. Stavo firmando un patto con me stessa.

Il giorno dopo mi sono svegliata con una strana energia, come se qualcuno avesse aperto una finestra dentro la testa. Ho guardato la casa, i girasoli, la targhetta “Anna Bianchi” e mi sono detta che non potevo più recitare la parte della moglie abbandonata. Avevo cinquant’anni, sì, ma mi sentivo come se mi avessero restituito vent’anni di respiro.

Ho tirato fuori la valigia piccola, quella che di solito restava in alto, sopra le coperte invernali. Non era la valigia “di famiglia”, era la valigia “di una persona”. E per la prima volta, quel dettaglio mi è sembrato enorme.

La lista delle cose da fare mi è venuta naturale, ma ho imposto a me stessa una regola nuova: niente frenesia, niente ansia per dimostrare che ce la faccio. Ho comprato una giacca davvero calda, scarpe con suola seria, guanti che non sembrassero un compromesso. Mentre pagavo, ho sentito il pensiero più antico bussare: “Ma chi te lo fa fare?”

Non ho risposto con un discorso, non ne avevo voglia. Ho risposto con una sola frase, detta in silenzio, come un comando gentile. “Io.”

Sono tornata al bar in piazza due giorni prima della partenza, perché certi luoghi diventano riti. Teresa era lì, come se avesse un appuntamento fisso con il destino delle altre donne. Mi ha guardata dalla testa ai piedi e ha annuito, soddisfatta, vedendo la mia faccia più aperta, meno contratta.

“Allora,” ha detto, “si parte davvero.”

“Mi tremano le gambe,” ho ammesso, cercando di scherzare.

Lei ha sorriso con quel rossetto rosso che pareva una bandiera. “Bene. Vuol dire che è viva. Se non trema niente, di solito è perché si è già morti dentro.”

Mi ha chiesto dove sarei andata, cosa avrei fatto, come se fosse la cosa più normale del mondo. Io, che per anni avevo spiegato ogni scelta come un’attenuante, mi sono sorpresa a parlare senza giustificarmi. “Vado a vedere l’aurora. Voglio un posto che mi faccia sentire piccola e pulita.”

Teresa ha alzato il bicchiere. “Brindo a questo. E si ricordi: in certi posti il freddo non è un nemico. È uno specchio.”

Prima di uscire ho chiamato Giulia, nostra figlia, con la voce un po’ più ferma del solito. Non volevo che scoprisse del viaggio per caso, come una notizia messa lì. Le ho raccontato tutto senza drammatizzare, perché la verità non ha bisogno di teatro.

“Mamma,” ha detto dopo un silenzio lungo, “io… non ti ho mai vista fare qualcosa solo per te.”

Le sue parole mi hanno fatto male e bene insieme, come quando premi su un livido. “Nemmeno io,” ho risposto, e mi è scappata una risata breve. “È per questo che lo faccio adesso.”

“Posso venire a prenderti quando torni?” ha chiesto.

“Mi farebbe piacere,” ho detto, e ho sentito che quella frase era già una piccola guarigione.

La mattina della partenza l’aeroporto era un mondo di suoni metallici e passi veloci. Mi sono sentita un po’ fuori posto con la mia valigia sobria e il mio viso da donna normale, senza glamour. Poi ho pensato che proprio lì stava la mia forza: non dovevo dimostrare niente a nessuno.

Sul volo ho guardato il finestrino come si guarda un orizzonte nuovo. Non ho dormito, ma non per agitazione; era una vigilanza dolce, come se temessi di perdermi l’istante in cui qualcosa cambia. Quando ho visto sotto di me la terra diventare scura, e poi bianca, ho sentito il cuore fare un passo avanti.

Appena scesa, l’aria mi ha colpita in faccia con una pulizia quasi crudele. Il freddo era secco, vero, senza umidità e senza concessioni. Ho inspirato e mi sono accorta che, invece di stringermi, quel gelo mi apriva.

La pensione era piccola, ordinata, profumava di legno e di lana asciutta. La proprietaria, una donna robusta con guance rosate, mi ha accolto con un sorriso semplice e diretto, come certe persone del Nord che non sprecano parole. Mi ha allungato una chiave pesante e mi ha chiesto, in un italiano sorprendentemente buono, se volevo una tisana calda.

“Grazie,” ho risposto, e quella parola mi è uscita con un calore diverso. Non era gratitudine di cortesia, era gratitudine di essere arrivata fin lì intera.

La prima sera ho camminato per le strade illuminate da luci morbide, senza l’ansia di “fare cose” per raccontarle a qualcuno. Ho cenato da sola, vicino a una finestra appannata, mangiando una zuppa che sapeva di mare e di burro. E ho capito che la solitudine, se non la riempi di vergogna, può essere perfino gentile.

Il giorno dopo avevo prenotato un’escursione notturna per vedere l’aurora. Non volevo fare la coraggiosa a tutti i costi, volevo essere prudente, e la prudenza non mi sembrava più una rinuncia. Era cura.

Sul pullman eravamo pochi, con cappelli enormi e occhi assonnati. C’erano due ragazzi con macchine fotografiche serie e una coppia giovane che parlava sottovoce. E poi tre donne vicino alla mia età, di quelle che si riconoscono da come si siedono dritte, come se avessero retto troppo a lungo il peso degli altri.

Una si chiamava Marta, veneziana, separata da poco. Un’altra era Paola, del Sud, vedova da alcuni anni, con uno sguardo che aveva imparato a non chiedere scusa. La terza era tedesca, parlava un italiano perfetto e rideva spesso, come se la vita fosse una cosa seria ma non sacra.

Ci siamo scambiate poche frasi, quelle che bastano a dire: “Ci sono anch’io.” Quando il pullman ha lasciato le luci alle spalle, il buio è diventato pieno, denso. Il silenzio lì non era vuoto: era un luogo.

Il guida ci ha fatto scendere in un punto lontano, dove il cielo sembrava più vicino. Il vento tagliava le guance e ci costringeva a stringere i denti, ma nessuna di noi si è lamentata davvero. Era come se avessimo bisogno di quel freddo per ricordarci che siamo fatte di carne e di coraggio.

Abbiamo aspettato. Aspettare, quando hai passato anni a correre dietro ai bisogni degli altri, è quasi un dolore fisico. Eppure, in quell’attesa, ho sentito qualcosa che non provavo da tempo: la mia presenza, tutta intera.

All’inizio il cielo era solo nero e stelle. Poi, senza preavviso, è comparsa una striscia chiara, verdissima, come un respiro. Si è allungata, ha tremato, ha iniziato a muoversi, lenta e viva.

Non era una cartolina. Era una cosa fragile e potente insieme, come la pace quando finalmente arriva.

Mi sono sentita gli occhi riempirsi di lacrime, e non ho fatto nulla per fermarle. Ho pianto in silenzio, senza vergogna, con la faccia gelata e il petto caldo. Marta mi ha passato un fazzoletto senza dire una parola, e Paola mi ha sfiorato il braccio con una mano ferma, come si fa con chi sta tornando a casa.

“È incredibile,” ho sussurrato.

Paola ha annuito. “È come se il cielo dicesse: guarda che non sei finita.”

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