Quando una bambina sconosciuta ferma lo sfratto e costringe un freddo miliardario a guardarsi dentro

Quando una bambina sconosciuta ferma lo sfratto e costringe un freddo miliardario a guardarsi dentro

Lo sfratto firmato col sangue di sua figlia: il rimorso di un miliardario che aveva il cuore di ghiaccio

Capitolo 1 – Il re del ghiaccio e del cemento

Il vento che arrivava dalla pianura padana non soffiava soltanto. Mordeva. Aveva denti sottili che graffiavano la pelle di chiunque fosse abbastanza incosciente da stare per strada a Milano a fine dicembre.

Dentro l’abitacolo climatizzato della lunga berlina nera, però, Arturo Sereni non sentiva niente. La temperatura era ferma sui ventidue gradi. I sedili, in morbida pelle cucita a mano, lo avvolgevano come una poltrona di un teatro d’opera. Su un piccolo piano di legno lucido, accanto a lui, c’era un bicchiere di cristallo con dentro del whisky, ancora intatto.

Arturo, conosciuto nei quartieri finanziari come il “Re del Ghiaccio”, si sistemò i polsini del completo su misura. A settantadue anni, era un uomo scolpito nella pietra. I capelli, completamente argento, erano pettinati alla perfezione. Gli occhi, di un grigio metallico, sembravano due lame: duri, inflessibili, senza calore.

Guardò fuori dal finestrino oscurato la strada grigia e bagnata della periferia sud.

«Stiamo arrivando al cantiere, dottor Sereni» disse l’autista, incrociando il suo sguardo per un secondo dallo specchietto, prima di tornare sulla strada.

«Era ora» brontolò Arturo, con una voce bassa che non ammetteva repliche. «I giornalisti? Ci sono?»

«Sì, signore. Una rete televisiva, qualche freelance. E i manifestanti.»

Arturo sbuffò. «Ma certo. Non hanno niente di meglio da fare che proteggere un mucchio di mattoni marci.»

Quel “mucchio di mattoni marci” erano le Case Popolari San Pio. Un grande edificio vecchio e malandato, dichiarato inagibile tre volte negli ultimi dieci anni, salvato ogni volta all’ultimo minuto da qualche consigliere comunale dal cuore tenero.

Ma Arturo Sereni non perdeva mai. Aveva comprato il debito, smosso i contatti giusti, firmato l’ordinanza di demolizione. Al posto delle case popolari avrebbe costruito “Le Torri Sereni”, un complesso di negozi di lusso e appartamenti esclusivi che, secondo lui, avrebbe cambiato lo skyline della città.

Per Arturo, quello era progresso.
Per le famiglie che vivevano lì dentro, era la fine del mondo.

L’auto rallentò. Attraverso il vetro, Arturo li vide. Una cinquantina di persone con cartelli in mano, bagnati dalla neve mista a pioggia.

UNO STRACCIO DI CASA È ANCORA CASA, diceva un cartello.
DOVE ANDREMO ADESSO?, diceva un altro.

Le transenne della polizia tenevano la folla a distanza. Davanti, fermi come statue, c’erano gli uomini della sicurezza privata di Arturo, giacconi scuri, braccia incrociate, auricolari all’orecchio.

«Vuole che entriamo dal retro, signore?» chiese l’autista.

«No» rispose Arturo, slacciando la cintura. «Io non mi nascondo dalla plebaglia. Vai dritto al cancello.»

La berlina avanzò piano, tagliando la folla di giornalisti e manifestanti come uno squalo nero nell’acqua. I flash scattavano, riflettendosi sull’asfalto bagnato. Arturo fece un respiro profondo. Si preparò. Non gli importava della loro rabbia.

Nella sua testa, la povertà era mancanza di volontà. Lui il suo impero se l’era costruito partendo da poco e con tanta spietatezza. Se quelle persone volevano una vita migliore, dovevano impegnarsi di più.

Era questa la bugia che si raccontava per riuscire a dormire la notte.

Aprì lo sportello e scese. Il freddo lo colpì subito, cercando le fessure del cappotto di cachemire, ma lui non tremò. Rimase dritto, si abbottonò con calma la giacca, cercando di emanare un’unica cosa: potere assoluto.

«Dottor Sereni! È vero che sta sfrattando trenta famiglie a una settimana da Natale?» gridò un cronista, allungando il microfono oltre la transenna.

«Dottor Sereni! Non ha un cuore?» urlò una donna.

Arturo li ignorò. Camminò verso il responsabile del cantiere, un ometto nervoso di nome Genchi che stringeva un blocco appunti come fosse uno scudo.

«Situazione» ordinò Arturo, senza neanche un saluto.

«S-siamo in orario, signore» balbettò Genchi, togliendosi un fiocco di neve dagli occhiali. «Gli ultimi avvisi sono stati consegnati quarantotto ore fa. L’ufficiale giudiziario sta liberando l’ultimo appartamento al quarto piano. Possiamo iniziare con la demolizione dell’ala est entro un’ora.»

«Bene» disse Arturo, alzando lo sguardo verso l’edificio. Era brutto. Vetri rotti tappati col cartone. Murales e scritte sui muri. Odore di muffa e disperazione. «Buttatelo giù. Voglio la prima pietra delle Torri Sereni prima del nuovo anno.»

Si voltò per tornare al caldo della macchina. La sua parte era fatta: si era fatto vedere sul posto, i soci avrebbero visto che controllava tutto.

Ma proprio mentre si girava, la linea delle guardie di sicurezza si mosse. Ci fu un trambusto vicino alla transenna. Si aprì un varco.

«Ehi! Tu non puoi entrare!» urlò una guardia.

Arturo, infastidito, si fermò.

Non era un manifestante con una bomba.
Non era un giornalista con una telecamera.

Era una bambina.

Non poteva avere più di sei anni. Magrolina, quasi trasparente, affogata in un cappottino sporco grande almeno tre taglie in più. L’orlo strisciava nella neve. Portava guanti spaiati, e i capelli, un groviglio di ricciolini chiari, spuntavano da un berretto di lana sottile.

Corse dritta verso di lui.

Gli uomini della sicurezza furono lenti, forse perché non si aspettavano che qualcosa di così piccolo e fragile potesse muoversi così in fretta. Arturo rimase immobile, aggrottando la fronte. Odiava i bambini. Erano appiccicosi, rumorosi, illogici. Non parlava con un bambino da… da quando Sara se n’era andata.

La bimba si fermò a un metro da lui. Ansava, il fiato che usciva in piccole nuvole bianche. Aveva il viso sporco di fuliggine, ma gli occhi – di un azzurro tagliente e lucidissimo – lo fissavano con una miscela di paura e decisione.

«Signore?» pigolò. La voce sottile, tremante di freddo.

Arturo la guardò dall’alto in basso. «Dove sono i tuoi genitori, bambina? Stai violando una proprietà privata.»

«I grandi… i grandi hanno detto che lei è il capo» balbettò, i denti che battevano. Infilò una mano nella tasca enorme del cappotto.

Arturo fece un mezzo passo indietro, istintivo. Le guardie arrivarono di corsa, due le si buttarono quasi addosso. «Indietro, signore! Ci pensiamo noi!»

Ma la bambina non tirò fuori una pistola. Tirò fuori un foglio di carta. Un semplice foglio a righe, tutto spiegazzato e macchiato, strappato probabilmente da un quaderno di scuola.

Lo sollevò verso di lui. La manina tremava forte dal gelo.

«Io non so leggere bene la scrittura attaccata» disse, con gli occhi lucidi. «Lo può leggere lei per me? La mamma l’ha scritto prima di andare a dormire.»

Una delle guardie, un uomo dal collo grosso di nome Covi, la afferrò per una spalla. «Basta così, piccola peste. Andiamo.»

«Aspetta» disse Arturo.

Neanche lui sapeva perché l’avesse detto. Forse per le telecamere. Forse per il modo in cui la bambina non si dibatteva, ma continuava solo a guardarlo, con una supplica muta negli occhi. Farsi riprendere mentre una guardia trascinava via una bimba piangente sarebbe stato un disastro.

«Lasciala» ordinò.

Covi esitò, poi la mollò. Lei non scappò. Fece un passo avanti e gli tese di nuovo il foglio.

«Per favore» sussurrò. «La mamma ha detto che l’uomo nella torre di vetro capirà.»

Arturo sospirò, stanco. «Va bene.»

Prese il foglio. Era umido. Tirò fuori gli occhiali dalla tasca interna della giacca, aprì la montatura dorata e se li mise sul naso. Si aspettava la solita lettera: una supplica, una richiesta di rinviare lo sfratto, un aiuto. Ne aveva lette mille. Ne aveva ignorate mille.

Aprì il foglio. La calligrafia era incerta, sempre più debole verso il fondo, come se chi scriveva avesse perso forza parola dopo parola. Ma le curve delle lettere, il modo in cui le T erano tagliate…

Arturo conosceva quella grafia.

Sentì una fitta al petto, come se il cuore avesse saltato un colpo. Strinse gli occhi, concentrandosi sulla prima riga.

Alla mia piccola Lia,

Il respiro gli si spezzò. Guardò la bambina. Lia.

Tornò al foglio. Il rumore dei manifestanti, delle macchine, delle telecamere… tutto si trasformò in un brusio lontano. Il mondo si ridusse a quel pezzo di carta sporco tra le sue dita curate.

Capitolo 2 – La principessa di carta

L’inchiostro era blu, di una normale penna a sfera. Il foglio era macchiato di qualcosa che pareva minestra secca. O forse sangue.

Arturo continuò a leggere. Gli occhi correvano sulle righe, la mente rifiutava quello che il cervello gli stava mostrando.

Alla mia piccola Lia. Se stai leggendo, vuol dire che la mamma non si è svegliata. Mi dispiace, amore. Ho provato a restare sveglia, ci ho provato tanto.

Le mani di Arturo iniziarono a tremare. Il foglio vibrava come una foglia nel vento.

Mi dispiace che non sia riuscita a farti avere più caldo. Mi dispiace per la tosse. So che ti fa male. Ma ascoltami. Adesso devi essere coraggiosa. Più della mamma.

Vai in centro, alla grande torre di vetro. Chiedi di Arturo Sereni. È un uomo duro, con il cuore di pietra, ma è tuo nonno.

Le parole lo colpirono come un pugno nello stomaco. Fece un passo indietro, ansimando. Il Re del Ghiaccio sentì una crepa aprirsi nel petto. Nonno.

Digli che lo perdono. Digli che ho mantenuto la promessa: non gli ho chiesto un centesimo, nemmeno quando morivamo di fame. Nemmeno quando Marco è morto. Ce l’ho fatta da sola.

Ma adesso gliela chiedo. Non per me, per te. Ti prego, papà. Se mi hai voluto bene, anche solo per un momento, prima che ti arrabbiassi… salvala tu. Non lasciare che congeli come è successo a me.

Ti amo, Lia. Sei il mio raggio di sole. — Sara.

Arturo fissò la firma. Sara. La sua Sara. La figlia che aveva cacciato di casa dieci anni prima perché voleva sposare un musicista invece dell’avvocato che lui aveva scelto per lei.

Le aveva detto: «Se esci da quella porta, per me sei morta. Non tornare da me quando avrai fame.»

E lei non era tornata. Mai.

Aveva avuto fame. Aveva avuto freddo. Negli appartamenti di un edificio che apparteneva a lui.

La verità gli arrivò addosso come un’onda enorme. Lui stava sfrattando gli inquilini delle Case San Pio. Due giorni prima aveva fatto staccare il riscaldamento per “invogliarli” ad andarsene.

Aveva ucciso sua figlia.

«Signore?» La voce di Lia lo strappò al suo incubo. Tremava tutta, le labbra già di un viola spaventoso. «La lettera dice qualcosa di brutto? Perché sta piangendo?»

Arturo portò una mano alla guancia. Era bagnata. Non si era neanche accorto di star piangendo. Guardò la bambina – sua nipote. In quel viso sporco riconobbe il naso di Sara. E il mento di sua madre.

In quel momento, Covi fraintese tutto. Vide il suo capo in lacrime e pensò che la bambina lo avesse offeso o ferito in qualche modo.

«Adesso basta!» ringhiò. «Lascialo in pace, piccola teppista!»

Le afferrò il cappuccio del cappotto e la strattonò indietro. La forza la sollevò quasi da terra. Lia urlò, un grido acuto di terrore, e lasciò cadere un piccolo orsetto di peluche nella neve fangosa.

Dentro Arturo qualcosa si spezzò. L’imprenditore calcolatore morì in quell’istante.

«NO!»

Il ruggito che gli uscì dalla gola era animale. Un suono grezzo, di rabbia e dolore puri.

Non pensò. Si lanciò in avanti. Arturo, che non aveva mai tirato un pugno in vita sua, spinse il corpulento Covi con una forza che non sapeva di avere. La guardia scivolò sul ghiaccio e cadde all’indietro.

«Toglile le mani di dosso!» urlò Arturo, con la voce spezzata.

La strada si zittì. I manifestanti abbassarono i cartelli. I giornalisti ingrandirono l’immagine. Il grande Arturo Sereni era in ginocchio nel fango, il suo completo costosissimo imbevuto di acqua sporca.

Strisciò verso Lia, che si era rannicchiata, coprendosi la testa con le braccia.

«Scusa» singhiozzava lei. «Scusa, non volevo farla arrabbiare!»

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