Quando una bambina sconosciuta ferma lo sfratto e costringe un freddo miliardario a guardarsi dentro

Quando una bambina sconosciuta ferma lo sfratto e costringe un freddo miliardario a guardarsi dentro

Capitolo 4 – La guerra dei lupi

La tempesta il giorno dopo non arrivò dal cielo. Arrivò dai telefoni, dalle mail, dai giornali.

Il video di Arturo Sereni in ginocchio nel fango, in lacrime con una bambina tra le braccia, aveva fatto il giro del Paese. Tutti ne parlavano.

Il crollo del Re del Ghiaccio.
Il miliardario che piange davanti a una casa popolare.

Alle nove in punto, Arturo entrò nella sala del consiglio della sua società. Indossava un completo diverso, pulito. Ma qualcosa in lui era cambiato. Gli occhi non erano più di ghiaccio. Erano arrossati, stanchi, ma brillavano di un fuoco nuovo.

Il Consiglio di Amministrazione era seduto attorno al lungo tavolo. Dodici uomini e donne abituati a macinare numeri, non coscienze.

«Arturo» iniziò il direttore finanziario, Marco Tonelli. «Dobbiamo contenere i danni. Il titolo ha perso punti stamattina. Dobbiamo diffondere un comunicato: dire che eri sotto stress, che la scena è stata fraintesa. E soprattutto dobbiamo andare avanti con la demolizione. Subito. Per dare un segnale di forza.»

Arturo si mise a capotavola. Li guardò uno per uno. In ognuno vedeva una versione di sé stesso: avidi, ciechi, vuoti.

«Non ci sarà nessuna demolizione» disse piano.

La sala esplose. «Come, scusa? Abbiamo investito milioni! I contratti sono firmati!»

«Ho detto no» alzò la voce Arturo. «Le Case San Pio non verranno abbattute.»

«Sii ragionevole» ribatté Tonelli, alzandosi in piedi. «È una zona perfetta. Non possiamo lasciare in piedi uno stabile fatiscente in quel punto.»

«Non resterà fatiscente» disse Arturo. «Lo ristruttureremo.»

«Ristrutturerlo?» rise nervoso Tonelli. «Per chi? Quella gente non può pagare l’affitto a prezzo di mercato.»

«Non pagheranno» rispose Arturo. «Trasformiamo le Case San Pio in un rifugio. Alloggi dignitosi a basso costo o gratuiti. Ambulatorio medico al piano terra. Una piccola scuola al secondo. E la chiameremo Casa Sara Sereni

Silenzio. Silenzio assoluto.

«Sei impazzito» sputò Tonelli. «Questa è un’azienda, non una fondazione. Hai un dovere verso gli azionisti. Se lo fai, ti faranno fuori.»

Arturo sorrise. Ma non era il solito sorriso freddo. Era il sorriso di un lupo che sa di essere ancora il più forte nel branco.

«Fuori me?» disse piano. «Marco, ti sei già dimenticato chi possiede il cinquantuno per cento delle azioni con diritto di voto?»

Tonelli sbiancò.

«Ho costruito questo gruppo sulle spalle di persone come quelle che abitano lì» continuò Arturo, la voce sempre più ferma. «Le ho spremute fino all’ultimo centesimo. Ho finto di non vedere la loro fatica. E per colpa mia… per colpa nostra… mia figlia è morta in una stanza gelata di un palazzo che porta il mio nome.»

Un sussurro attraversò la sala. Non lo sapevano.

«È morta» ripeté Arturo, battendo il pugno sul tavolo. «Mentre noi qui discutevamo di margini di profitto. Adesso le cose cambiano. Il Gruppo Sereni diventerà un esempio di edilizia giusta e umana. Useremo i nostri soldi per riparare almeno una parte del danno che abbiamo fatto.»

Guardò Tonelli. «E tu, Marco. Sei licenziato.»

«Non puoi—»

«L’ho appena fatto. Fuori.»

Si voltò verso gli altri. «Chiunque di voi pensi ancora che i numeri contino più delle persone può seguirlo alla porta. Adesso.»

Nessuno si mosse.

«Bene» disse Arturo, sedendosi. «Al lavoro. Voglio gli architetti al telefono. Voglio i migliori impianti di riscaldamento installati alle Case San Pio entro stasera. E voglio un fondo per ogni bambino che vive in quel quartiere.»

Si appoggiò allo schienale. Sentì cadere dalle spalle un peso che portava da quarant’anni. Non stava più costruendo solo edifici.

Stava costruendo una eredità.

Capitolo 5 – Primavera nell’orto

Sei mesi dopo.

L’inverno era passato. La neve grigia aveva lasciato posto al verde tenero della primavera. L’aria di Milano non tagliava più il viso, carezzava solo.

Casa Sara Sereni era aperta. Non sembrava più un vecchio caseggiato di periferia. I mattoni erano stati ripuliti, le finestre sostituite con vetri nuovi che brillavano al sole. Il cortile di cemento dove prima parcheggiavano i camion della demolizione era diventato un orto comunitario, pieno di pomodori, insalata, peperoni e fiori.

Arturo sedeva su una panchina in mezzo all’orto. Non portava il solito completo. Aveva dei pantaloni chiari e un cardigan azzurro. Sembrava più vecchio, sì, ma anche più morbido. Gli spigoli del suo viso si erano smussati.

Guardava i bambini che giocavano sulle nuove altalene.

«Nonno!»

Arturo si voltò. Lia gli correva incontro sull’erba. Non aveva più l’aria di un’ombra congelata. Le guance erano piene e rosse. I capelli, puliti e raccolti con un fiocco giallo, rimbalzavano mentre correva. Aveva uno zainetto un po’ troppo grande per lei che ballava sulla schiena.

«Piano, razzo!» rise Arturo, aprendo le braccia.

Lia gli si lanciò addosso, abbracciandolo. «Ho finito il primo giorno! Prima elementare!»

«Davvero?» le baciò la testa. «E cosa hai imparato?»

«Tantissime cose» disse lei, tutta eccitata. «Ma guarda, questo è per te.»

Tirò fuori dallo zaino un foglio di cartoncino un po’ spiegazzato. Era un disegno. Con i pastelli aveva fatto una bambina dai capelli gialli spettinati che teneva per mano un omino molto alto con un maglione blu. Accanto, una pietra con scritto “MAMMA”. Sopra, un grande sole giallo.

«La maestra oggi ci ha insegnato a scrivere» disse fiera. «Leggi cosa ho scritto sotto.»

Arturo si mise gli occhiali. Le mani gli tremarono di nuovo, come quel giorno nella neve, ma stavolta non per la paura.

In fondo al foglio, con grosse lettere storte, c’era scritto:

TI VOGLIO BENE NONNO.

Arturo fissò quelle parole. Aveva guadagnato milioni. Aveva il suo nome su palazzi altissimi. Aveva cenato con persone importanti. Ma niente – niente – lo aveva mai fatto sentire così ricco come in quel momento.

Guardò Lia. «È stupendo, Lia. È la cosa più bella che abbia mai letto.»

«Secondo te alla mamma piace?» chiese lei, alzando lo sguardo al cielo.

Arturo guardò in su. Le nuvole si stavano aprendo e un raggio di sole cadeva proprio sull’orto.

«Sì» sussurrò. «Credo che lo adori. E credo che abbia perdonato anche me.»

«Ti voglio bene, nonno» disse Lia, stringendosi al suo cardigan.

«Ti voglio bene anch’io, mia principessa di carta» rispose lui.

La tenne stretta, seduto sul quella panchina, nel tepore della primavera. L’uomo che un tempo era fatto di ghiaccio, adesso era finalmente, completamente caldo.

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