Quando una mamma sola apre la porta a 25 biker infreddoliti e il suo quartiere esplode di moto

La vigilia di Natale una tormenta di neve si abbatté all’improvviso sulla periferia di Torino.
Nel piccolo locale all’angolo di via dei Pioppi, Amina lottava contro il freddo, il buio e la paura.

Il vecchio termosifone non funzionava più, la corrente saltava a intermittenza e suo figlio di due anni, Luca, tremava avvolto in tre coperte.
Fu allora che sentì il rumore.

Prima un brontolio lontano.
Poi un rombo sempre più forte, profondo, che faceva vibrare i vetri.

Amina si affacciò alla finestra appannata e il cuore le saltò in gola.

Davanti alla porta del suo minuscolo locale – metà casa, metà trattoria improvvisata – si allinearono venticinque moto pesanti, scure, coperte di neve.
Gli uomini che scesero erano tutti in giacche di pelle e caschi integrali. Sembravano usciti da un film.

Bussarono.
Una voce roca attraversò il vento:

— Signora, la prego… Stiamo gelando qui fuori. Possiamo entrare solo per scaldarci un po’?

Amina aveva paura. Una madre sola, un bambino piccolo, venticinque motociclisti sconosciuti nella notte di Natale.
Non poteva sapere che, tre giorni dopo, quel gesto le avrebbe portato centinaia di moto davanti alla porta e avrebbe cambiato la vita di un intero quartiere.


L’orologio scheggiato sulla parete della cucina segnava le 3:47 di notte quando Amina si concesse finalmente di sedersi.

Le mani rovinate dal detersivo tremavano mentre contava le banconote stropicciate sparse sul tavolo.
Sette euro e trentacinque centesimi.

Tutto ciò che le rimaneva tra suo figlio Luca e un piatto vuoto la mattina dopo.

A trentadue anni ne dimostrava almeno quaranta.
La pelle scura, un tempo luminosa, era diventata opaca; gli occhi, grandi e belli, erano sempre segnati da occhiaie profonde.

La piccola casa al piano terra, in fondo a via dei Pioppi, scricchiolava a ogni folata di vento. Le altre palazzine stavano tutte più in su, ben illuminate; lei era rimasta nell’angolo dimenticato del quartiere.

Luca dormiva in un angolo della cucina, su un giaciglio improvvisato con coperte e cuscini del divano.
Il termosifone della sua cameretta si era rotto due settimane prima e Amina non aveva i soldi per chiamare un tecnico. Così lo teneva vicino al forno acceso, sperando che almeno lì facesse un po’ più caldo.

Il suo petto si alzava e abbassava con un respiro tranquillo, ignaro delle bollette non pagate, degli avvisi del padrone di casa, delle telefonate dei creditori.

Amina appoggiò i gomiti sul tavolo e si coprì il viso con le mani.

— Perché ci hai lasciati, Samir? — mormorò nel silenzio.

Otto mesi prima, il suo compagno se n’era andato “per rimettere a posto la sua vita”, diceva.
L’aveva rimessa a posto con una ragazza di ventitré anni da qualche parte al sud, completamente sparito: nessuna chiamata, nessun aiuto, nessun contributo per il bambino.

I documenti della separazione stavano in una cartellina sul frigorifero, timbrati con un grosso timbro rosso. Ogni volta che li vedeva, le sembrava di rivedere tutto il sangue versato per far funzionare quella relazione.

Il telefono vibrò sul tavolo.
Un messaggio.

«Da domani non serve che venga. Abbiamo deciso di interrompere il contratto. I clienti si sono lamentati perché suo figlio piangeva troppo l’altra sera.»

Era l’ultimo lavoro, quello delle pulizie notturne in un piccolo supermercato.
Prima l’avevano licenziata dalla lavanderia perché Luca si era ammalato e lei l’aveva dovuto portare con sé.
Poi dal bar dove serviva ai tavoli: dopo 18 ore di lavoro di fila tra un impiego e l’altro, si era addormentata in piedi dietro al bancone.

— Come faccio a lavorare se non ho nessuno che ti guarda, amore? — sussurrò guardando il piccolo.

Asilo nido? Troppo caro.
Famiglia? Nessuno. Sua madre era morta tre anni prima, portandosi via l’ultima spalla su cui Amina poteva piangere senza vergogna.

Chiuse gli occhi e, come spesso accadeva nei momenti peggiori, sentì la voce di sua madre, forte e dolce al tempo stesso:

«Amina, tesoro, ricordi la ricetta del pollo fritto di tua nonna? È il nostro segreto di famiglia. Un giorno, quando sarà davvero dura, quella ricetta potrebbe salvarti.»

All’epoca aveva riso, pensando che fosse solo un modo di dire.

Adesso, seduta in una cucina gelida con sette euro scarsi sul tavolo, quelle parole sembravano l’unica corda a cui aggrapparsi.

Si alzò, aprì la vecchia credenza e tirò fuori una scatola di latta ammaccata.
Dentro c’era la scatolina con le ricette, scritte a mano su cartoncini ormai ingialliti.

Trovò il foglietto con sopra «Pollo fritto della nonna – non cambiare mai le spezie!».
Sotto, dettagli precisi per le salse e i contorni, come se la nonna fosse lì accanto a lei a guidarla.

— Forse è il momento di provarci davvero — bisbigliò. Poi un attimo dopo: — O forse sono solo disperata.

Ma la disperazione e il coraggio, a volte, hanno lo stesso sapore.


La mattina dopo, Amina uscì con Luca in braccio e i suoi ultimi soldi infilati in una tasca.
Comprò pollo, farina, olio, le spezie più basilari e qualche ingrediente per i contorni.

Tornata a casa, spinse il tavolo della cucina contro la parete, montò due tavolini pieghevoli in soggiorno e cercò di farli sembrare un piccolo ristorante.
Scrisse con cura su un cartellone:

“La Cucina di Mamma Amina – Cibo di casa, cucinato con il cuore”

Lo appoggiò all’unica finestra che dava sulla strada.

Luca, sul seggiolone, sbatteva le mani felice mentre il profumo di pollo fritto, speziato alla perfezione, riempiva la casa.
La crosta dorata scoppiettava nell’olio caldo, e per un attimo Amina si sentì davvero di nuovo nella cucina di sua madre, in un altro paese, in un’altra vita.

Poi arrivò la realtà.

Passarono le ore.
Dalla finestra vedeva la gente che andava alla fermata dell’autobus. Alcuni rallentavano quando leggevano il cartellone, quasi incuriositi. Ma appena incrociavano il suo sguardo – una donna africana, da sola, in una casa vecchia e malmessa – tiravano dritto più veloci di prima.

La signora Bianchi, del palazzo in fondo alla via, si fermò addirittura a leggere tutto il menu.
Amina sentì un’ondata di speranza e corse ad aprire.

— Buongiorno, signora Bianchi! Le andrebbe di provare il mio pollo? È la ricetta di famiglia, molto leggero, molto…

L’espressione della donna cambiò di colpo.
Gli occhi si fecero duri.

— No, grazie — disse fredda, facendo un passo indietro. — Ho sentito parlare di lei. Sempre da sola, con quel bambino. Nessun marito… Non mi sembra una situazione molto… seria.

Amina deglutì.

— Il cibo è perfettamente pulito, glielo assicuro. E se non le piace, non paga.

— Le ho detto di no — tagliò corto la vicina, stringendosi il cappotto addosso. — E un consiglio: smetta di fare “ristorante” in casa. Questa è una zona tranquilla. Non abbiamo bisogno di problemi.

Voltò le spalle e se ne andò, lasciandosi dietro una scia di profumo costoso e di giudizio.

Amina richiuse la porta piano, come se un gesto brusco potesse farla crollare.
Il petto le bruciava non per il freddo, ma per l’umiliazione.

Guardò Luca, che la fissava con gli occhi grandi e fiduciosi.

— Va tutto bene, amore — sussurrò, prendendolo in braccio. — La mamma troverà una soluzione. Te lo prometto.

Ma guardando la “trattoria” vuota e il pollo rimasto nei vassoi, non era sicura di poter mantenere quella promessa.


Passarono tre settimane.

Quattro clienti in totale.
Quattro persone che avevano assaggiato il pollo della nonna e avevano chiuso gli occhi dal piacere, dichiarandolo il migliore della loro vita.
Ma quattro clienti non pagano l’affitto, né la luce, né il gas.

Il cumulo di bollette sulla tavola cresceva ogni giorno, come una piccola montagna minacciosa.

Il 23 dicembre il cielo si fece di un grigio pesante. Al telegiornale parlavano della “peggior nevicata degli ultimi vent’anni”.
Amina mescolava una pentola di zuppa di pollo e gnocchetti, cercando almeno di tenere la cucina calda.

— Mamma, freddo… — disse Luca dal seggiolone, massaggiandosi le mani.

Amina alzò il fornello e lo avvolse in un’altra coperta.

Verso sera, la neve cominciò a cadere fitta, come se il cielo si fosse aperto. In poco tempo i marciapiedi sparirono sotto un tappeto bianco.
Le poche auto che passavano di solito in fondo alla via sparirono del tutto.

La notte fu un concerto di vento che ululava tra le case e rami che scricchiolavano sotto il peso della neve.

La mattina della vigilia, Amina si svegliò in una casa che sembrava un frigorifero.
Ogni respiro formava una nuvoletta davanti alla bocca. Luca tremava nonostante gli strati di vestiti.

Corse a controllare la caldaia: sul piccolo display lampeggiava un codice di errore incomprensibile.

— No, adesso no… ti prego — ripeteva premendo tasti a caso.

Chiamò il numero dell’assistenza. Una voce registrata, cortese ma fredda, la informò che, a causa del maltempo, gli interventi non urgenti sarebbero stati rimandati di 72 ore.

— Settantadue ore? — ripeté ad alta voce, come se così potesse suonare meno terribile.

Luca cominciò a piangere, un pianto sottile e continuo, come un fischio che le trapassava il cuore.

La corrente saltò nel pomeriggio, con un “clic” secco.
Il frigo si spense. Le luci morirono. Il silenzio fu interrotto solo dal vento e dai singhiozzi del bambino.

Per fortuna il gas funzionava ancora.
Amina accese tutti i fuochi, mise pentole d’acqua a bollire per creare un po’ di vapore caldo, aprì lo sportello del forno.

— Staremo qui, in cucina — disse a Luca, che tremava tra le braccia. — Abbiamo cibo, abbiamo coperte. Ce la faremo, amore mio. Promesso.

La dispensa, riempita per la trattoria, si rivelò una benedizione: riso, legumi, conserve, farina, olio.
Se fosse stata da sola, sarebbe bastato per una settimana. Ma un bambino malato non vive di conti razionali.

Il secondo giorno il freddo diventò quasi insopportabile.
Amina si avvolse in tutto ciò che trovò: cappotti vecchi, sciarpe, asciugamani. Fece lo stesso con Luca.
Dormivano seduti, schiena al muro, davanti al forno, come due naufraghi davanti a un fuoco sempre troppo piccolo.

Lui tossiva di tanto in tanto, una tosse che le suonava come una sirena d’allarme nella testa.

La neve si era accumulata così tanto davanti alle finestre che filtrava pochissima luce. Sembravano murati vivi in un igloo.

La terza notte il vento urlava come una bestia ferita.

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