Quando una mamma sola apre la porta a 25 biker infreddoliti e il suo quartiere esplode di moto

Fu in quel frastuono che Amina sentì un altro suono.
All’inizio pensò fosse solo un’illusione: un ronzio lontano.
Poi si fece più forte. Più profondo. Più ritmico.

Motori.

Motori grossi.

— È impossibile… — sussurrò. — Con questa neve, nessuno può essere in strada.

Ma il rombo si avvicinava, finché la casa non tremò leggermente sotto la vibrazione.

Attraverso una piccola fessura nel muro di neve appiccicato alla finestra, vide luci che si muovevano come occhi nel buio.

Fari.

Moto.

Tante.

Il rumore di gomme e stivali schiacciava la neve nel cortile davanti.
Poi, all’improvviso, silenzio.

Niente più motori, solo vento.

E tre colpi decisi alla porta.

TUM TUM TUM.

Il suono risuonò per tutta la casa come un colpo di pistola.

Amina si irrigidì. Luca, mezzo addormentato, iniziò a lamentarsi piano.

— Signora! — una voce profonda arrivò da dietro il legno. — Abbiamo bisogno di aiuto. Stiamo gelando qui fuori.

Amina sentì il sangue pulsarle nelle orecchie.
Mai, in tutti gli anni in cui aveva vissuto in quella casa in fondo alla via, qualcuno era venuto a bussare durante una tempesta.

Fece qualche passo verso l’ingresso, ma si fermò a metà, schiacciata al muro, cercando di vedere senza farsi vedere.

Si avvicinò strisciando alla finestra, tenendo Luca stretto.

Quello che vide le fece gelare il sangue.

Davanti casa sua, in mezzo alla bufera, c’erano venticinque uomini in giacche di pelle, caschi lucidi poggiati sul braccio, pantaloni fradici di neve.
Sul dorso delle giacche un grande stemma: “Fratelli del Vento – Associazione Motociclistica”.

Il capo del gruppo era enorme.
Anche con il giubbotto imbottito si capiva che aveva spalle larghe come una porta. La barba, sale e pepe, era piena di cristalli di neve. Gli occhi, quando li alzò verso la finestra, erano sorprendentemente lucidi, attenti.

Amina si abbassò di scatto, con il cuore in gola.

— Sappiamo che è in casa — gridò l’uomo. — Vediamo la luce del fornello. Guardi, signora, capisco che è spaventata. Ma con questo freddo non abbiamo alternativa. O troviamo un riparo o qualcuno di noi non arriva a domani.

Un altro colpo, meno violento.

— Le giuro che non vogliamo fare del male a nessuno. Abbiamo uno di noi ferito, sta perdendo sangue da ore. Abbiamo bisogno solo di calore e di un tetto finché la tormenta non passa. Dormiremo per terra, non toccheremo nulla. Appena possibile ce ne andiamo.

Il cervello di Amina correva veloce, pieno di immagini di film e notizie: bande di motociclisti violenti, risse, storie di criminalità.
Lei, da sola, con un bambino di due anni.

Ma poi vide uno dei ragazzi barcollare nella neve. Un altro lo afferrò per le spalle per non farlo cadere. Sul pantalone aveva una macchia scura all’altezza della coscia.

Quello non era un uomo in cerca di guai.
Era un uomo in difficoltà.

Luca tossì forte, un colpo secco che la riportò dentro al proprio incubo: la casa gelida, il bambino malato, nessun aiuto.

Dentro non erano molto più al sicuro di loro, fuori.

E soprattutto… erano soli.

Sola da tre giorni con il rumore del vento come unica compagnia. Sola da mesi con il giudizio dei vicini come coro di sottofondo. Sola da anni, da quando sua madre era morta.

La voce di quella donna tornò nitida nella sua mente, come se stesse lì accanto a lei.

«Figlia mia, quando qualcuno è in difficoltà, lo aiuti. Non chiedere da dove viene, né che faccia ha. Un giorno potresti essere tu quella davanti a una porta chiusa.»

Amina guardò Luca. Lui la guardò con una fiducia assoluta, quella dei bambini che non hanno ancora imparato ad avere paura del mondo.

Un altro colpo.
Questa volta più leggero.

— Signora… la prego. Il nostro amico non sta bene. Lo so che chiedo tanto, venticinque uomini in casa sua, non è facile. Ma siamo persone perbene. Le chiedo solo di crederci per qualche ora.

Amina appoggiò la fronte alla porta fredda.
Sentiva il proprio cuore battere come se volesse uscire.

— Siete davvero feriti? — riuscì a chiedere, con la voce che le tremava.

— Sì, signora. Daniele è caduto con la moto su una lastra di ghiaccio qualche chilometro fa. Ha una brutta ferita alla gamba. Non riusciamo a fermare del tutto il sangue.

— Quanti siete? — chiese ancora.

— Venticinque. Lo so, fa paura. Ma noi non lasciamo indietro nessuno.

Venticinque.

Era un numero enorme per una casetta così piccola.
Un numero enorme per la sua paura.

Luca le sfiorò la guancia con la manina fredda.
Biascicò qualcosa nella sua lingua ancora incerta, ma il tono era quello: “Mamma, è tutto ok”.

— La mamma ha paura, piccolo — mormorò. — Ma forse… essere coraggiosi vuol dire proprio avere paura e aprire la porta lo stesso.

Inspirò profondamente.
Sfilò la catenella, girò piano la chiave e aprì la porta di qualche centimetro.

L’uomo enorme era lì, a un passo.
Da vicino faceva ancora più impressione: cicatrici sulle mani, occhi segnati da rughe profonde. Eppure, in quello sguardo, Amina vide qualcosa che non si aspettava.

Gratitudine.
Stanchezza infinita.
E una gentilezza nascosta, come una brace sotto la cenere.

— Grazie — disse lui, con una voce roca ma sincera. — Mi chiamo Michele. Non lo dimenticheremo.

Dietro di lui, gli altri ventiquattro aspettavano, quasi trattenendo il respiro.

Amina spalancò la porta quel tanto che bastava.

— Entrate — disse piano. — Prima che vi congelerete tutti.

Mentre il primo uomo attraversava la soglia, scrollandosi di dosso la neve, Amina capì che aveva appena preso una decisione che avrebbe cambiato tutto.
In meglio o in peggio, non lo sapeva ancora.

Ma, per la prima volta da molto tempo, non era più sola.


Uno dopo l’altro, i venticinque motociclisti entrarono in quell’angolo di casa che Amina voleva far diventare un ristorantino.

La stanza si riempì subito.
Giubbotti di pelle, stivali, sciarpe bagnate, caschi poggiati ovunque.

Ciò che la colpì però non fu il caos, ma il silenzio rispettoso.
Si muovevano piano, facendo attenzione a non urtare i mobili, a non spaventare il bambino che li osservava con gli occhi spalancati.

— Grazie — mormorò un ragazzo più giovane, vicino alla porta. — Non immagina quanto significhi per noi.

Luca sbucò da dietro la sua montagna di coperte, curioso.
Un uomo sui sessant’anni, con i capelli grigi alle tempie e lo sguardo buono, gli fece un piccolo cenno con la mano.

— È suo figlio? — chiese ad Amina con voce dolce.

— Sì. Si chiama Luca. Ha due anni.

— Che splendore… Io sono Toni. Ho due nipotine della sua età.

In quel sorriso c’era più nonno che motociclista.
Amina sentì una parte della tensione sciogliersi.

Michele entrò per ultimo, zoppicando leggermente. Chiuse la porta con cura e girò di nuovo la chiave.

Vide lo sguardo allarmato di Amina e alzò subito le mani.

— Solo per tenere fuori il freddo, signora… Amina, giusto? — chiese.

Lei annuì.

— E per tenerla al sicuro finché restiamo qui. Nessuno entra senza che lei lo voglia.

La stanza sembrava più piccola che mai, ma non caotica. C’era un ordine strano, come quello delle caserme.

— Dov’è il ferito? — chiese Amina.

Le indicarono un divano vicino al muro.
Un ragazzo pallido, con i capelli scuri incollati alla fronte, era seduto con la gamba distesa. I jeans erano macchiati di sangue all’altezza della coscia.

Amina corse in bagno, prese la vecchia scatola di pronto soccorso e tornò da lui.
Il ragazzo la guardò con occhi lucidi di febbre e dolore.

— Mi chiamo Daniele — disse, cercando di sorridere. — Mi dispiace, sto rovinando il suo divano.

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