— Il divano non conta — rispose lei, arrotolando il pantalone con delicatezza. — Conta la tua gamba.
La ferita era profonda, ma non sembrava aver toccato arterie importanti.
Amina la pulì con acqua calda, disinfettante e mani che ricordavano, senza pensare, i gesti di sua madre.
— Dovresti davvero andare in ospedale — disse a Michele. — Ma immagino che con questa neve sia impossibile.
— Le ambulanze sono bloccate, le strade anche — confermò l’uomo. — Abbiamo provato a chiamare il numero di emergenza, ci hanno detto che se non è in fin di vita dobbiamo aspettare che passi il peggio.
— Allora per stanotte ci penso io — disse Amina, stringendo bene le bende. — Ma qualcuno dovrà controllare spesso se il sangue si ferma.
Mentre lavorava, sentiva su di sé gli sguardi degli altri.
Non c’era minaccia in quegli sguardi.
C’era qualcosa di nuovo per lei: rispetto.
— Lei è brava — sussurrò Daniele, mentre lei finiva di fasciare. — Ha imparato da qualche infermiera?
— Mia madre faceva la cuoca — rispose Amina, stringendo il nodo dell’ultima benda. — Ma prima lavorava in una clinica. Mi ha insegnato un po’ di tutto: cucina e fasciature.
Mentre lei curava Daniele, alcuni degli uomini si erano già mossi verso la cucina.
Aprivano cassetti e sportelli con un’attenzione quasi timida.
— Signora… Amina — disse un uomo con accento del sud. — Abbiamo un po’ di viveri nelle borse da serbatoio. Se lei è d’accordo, possiamo cucinare tutti insieme. Così c’è da mangiare per lei, per il piccolo e per noi.
Il riflesso naturale di Amina fu quello di dire “No, lasciate stare”. Ma poi pensò alle scorte, al freddo, alla lunga notte davanti.
— Chiamatemi Amina, per favore — rispose. — E sì, ho abbastanza ingredienti per sfamare mezzo esercito. Cercavo di aprire un ristorante da casa… non è andata molto bene.
Michele sollevò un sopracciglio, interessato.
— Che tipo di cucina?
— Quella di mia madre. Molto pollo fritto, piatti un po’ africani e un po’ italiani. Roba che scalda il cuore.
— Allora stasera il cuore ce lo scaldiamo per bene — intervenne Toni, ridendo. — È da mesi che non mangiamo come si deve.
In poco tempo, la cucina si trasformò.
Tre uomini tritavano verdure, due impastavano, altri riempivano pentole con acqua e riso.
Amina si ritrovò al centro del piccolo esercito di cuochi improvvisati, spiegando dosi e tempi di cottura.
Il profumo di pollo speziato, verdure saltate e pane abbrustolito si mescolò al vapore dei fornelli, spingendo lentamente il freddo fuori dalle pareti.
Luca, attirato dall’odore e dalle voci, si avvicinò sempre di più.
Toni si sedette per terra con lui e cominciò a costruire torri usando le scatole vuote.
— È sveglio, questo piccolo — commentò un altro, chiamato Giacomo. — Mi ricorda mio nipote. Stessa faccia furba.
Quando tutti ebbero un piatto in mano – qualcuno seduto a tavola, altri per terra o appoggiati al muro – Michele si schiarì la voce.
— Amina, credo che meriti una spiegazione su chi siamo e perché siamo finiti qui.
Lei annuì, sedendosi sul bordo di una sedia, tenendo il piatto in mano senza quasi riuscire a mangiare.
— Siamo per la maggior parte ex militari, ex vigili del fuoco, qualcuno ex soccorritore — iniziò Michele. — Gente che ha passato anni in uniforme, fuori casa, a vedere il lato difficile del mondo. Tornati alla vita “normale”, molti di noi non si sono più sentiti a casa.
— Così ci siamo trovati tra noi — aggiunse Toni. — Una moto dietro l’altra, abbiamo formato un’associazione. Ci chiamiamo “Fratelli del Vento”. Viaggiamo, facciamo beneficenza, sosteniamo famiglie in difficoltà. Niente traffici strani, niente violenza. Non siamo una banda, siamo una famiglia.
Daniele, un po’ più colorito dopo il pasto e la fasciatura, fece un cenno dal divano:
— Stavamo andando a un raduno di Natale nei dintorni di Milano. Tutti i gruppi del nord si incontrano per raccogliere giocattoli per i bambini e generi alimentari per chi non ce la fa.
— Le previsioni dicevano che la neve forte sarebbe arrivata domani — sospirò Michele. — Ci siamo fidati. Grave errore. A metà strada la tormenta ci ha presi in pieno. Daniele è scivolato, il resto lo sa.
Amina li ascoltava con la bocca leggermente aperta.
Per anni aveva visto motociclisti in tv, sempre presentati come gente pericolosa, casinista.
Questi uomini, invece, parlavano di volontariato, di pacchi regalo, di famiglie da aiutare.
— Lo so cosa pensa la gente quando ci vede arrivare — disse Michele, guardandosi la giacca di pelle. — Pensano subito al peggio. Vedono tatuaggi, giubbotti e moto, e pensano che siamo criminali. Ma la verità è più semplice: non volevamo restare da soli. Così ci siamo scelti come famiglia.
Le parole le entrarono dritte in petto.
La ferita del pregiudizio era qualcosa che conosceva fin troppo bene.
Pensò alla signora Bianchi.
Ai datori di lavoro che la guardavano dalla testa ai piedi prima ancora di leggere il curriculum.
A chi cambiava lato del marciapiede quando la vedeva arrivare con la pelle scura e i sacchetti della spesa.
— Capisco benissimo — disse piano. — Anche a me succede. Gente che mi guarda e vede solo “straniera”, “madre sola”, “problemi”. Nessuno vede quante ore lavoro, quante notti non dormo. Vedono solo quello che vogliono vedere.
Il silenzio cadde nella stanza, pesante ma non scomodo.
Michele abbassò lo sguardo sul proprio piatto.
Quando lo rialzò, negli occhi aveva un dolore diverso, antico.
— Avevo una figlia — disse, quasi tra sé. — Si chiamava Elisa. Sei anni. Due treccine bionde e un sorriso che illuminava la stanza.
Le dita gli si chiusero a pugno e subito si riaprirono, come se stringessero un ricordo.
— La leucemia se l’è portata via tre anni fa. Abbiamo combattuto per diciotto mesi; poi… basta.
Nessuno parlò. Alcuni dei “Fratelli del Vento” guardarono il pavimento, altri fissarono un punto qualsiasi per non far vedere gli occhi lucidi.
— Sua madre non ha retto — continuò Michele. — Diceva che se avessi guadagnato di più, se avessi trovato un lavoro migliore, forse avremmo potuto permetterci cure diverse. Che se fossi stato un marito più presente, forse… Non lo so. So solo che un giorno ha fatto le valigie e se n’è andata. Non sopportava più di vedermi.
Fece un mezzo sorriso amaro.
— Così sono rimasto con una casa vuota e un dolore che non sapevo dove mettere. La moto e questi uomini sono stati l’unico posto in cui riuscivo a respirare.
Amina sentì gli occhi riempirsi di lacrime.
— Mi dispiace tanto, Michele.
— Ognuno di noi ha una storia così — disse lui, facendo un cenno verso gli altri. — O un lutto, o una guerra, o un lavoro che ti consuma. Non cerchiamo guai. Cerchiamo solo di non impazzire.
Amina si rese conto che, strano a dirsi, non si era mai sentita così capita.
— Anche il padre di Luca se n’è andato — confessò. — Un giorno ha detto che non ce la faceva più a essere povero, a fare il padre, a vivere in un quartiere come questo. Diceva che aveva bisogno di “ritrovarsi”. Ha trovato un’altra donna. Di noi si è dimenticato.
Si asciugò una lacrima col dorso della mano.
— La gente mi vede con un bambino e nessun uomo accanto e pensa che sia stata irresponsabile, che abbia sbagliato tutto. Non vedono il resto. Non vedono le promesse che non sono state mantenute.
Michele annuì lentamente.
— A volte la vita si rompe — disse. — E noi non abbiamo gli strumenti per aggiustarla. Facciamo quello che possiamo con i pezzi.
Ci fu un silenzio diverso, questa volta caldo.
Una specie di coperta invisibile che avvolse quella stanza piena di sconosciuti.
— Eppure, nonostante tutto — continuò Michele — lei ha aperto la porta. Poteva ignorarci. Aveva ogni motivo per farlo. Ma eccoci qui.
Amina guardò Luca che, ormai stanco, stava crollando nel sonno tra le braccia di Toni, la testa appoggiata sul petto del motociclista come se lo conoscesse da sempre.
— Mia madre diceva sempre che chi bussa nella tempesta va aiutato — disse. — “Un giorno potresti essere tu a bussare”. Non immaginava che avrebbe avuto ragione così alla lettera.
Toni accarezzò piano la testa di Luca.
— Non ricordo l’ultima volta che mi sono sentito al sicuro in un posto — mormorò. — Ma qui… qui è diverso.
Michele annuì.
— Nemmeno noi, Amina. Nemmeno noi.
Fuori, la tormenta continuava a urlare.
Dentro, la piccola cucina di via dei Pioppi era diventata, per una notte, il rifugio di venticinque uomini feriti dalla vita e di una madre che non sapeva più come farcela.
A mezzanotte passata, i piatti furono impilati nel lavello, le coperte distribuite sul pavimento.
Alcuni si sistemarono sul tappeto, altri sulle sedie, qualcuno rimase di guardia vicino alla porta quasi per istinto.
Amina spense l’ultimo fornello, lasciando solo una piccola fiamma.
Si sedette accanto a Luca, che dormiva profondamente, con quel respiro pesante dei bambini stanchi ma finalmente al caldo.
Guardò la stanza piena, le giacche di pelle, le barbe, i tatuaggi. E pensò che era assurdo, ma era la notte in cui si sentiva meno sola da anni.
Non sapeva ancora che cosa sarebbe successo quando la neve si sarebbe sciolta.
Non sapeva che quella porta aperta avrebbe scatenato una catena di eventi che avrebbe portato centinaia di moto davanti alla sua casa.
Per il momento, sapeva solo questo:
nella notte più fredda dell’anno, in una casa che nessuno voleva vedere, il calore era tornato.
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