— Togliete la mano dalla mia porta, per favore — disse, freddissima. — O sarò costretta a chiamare i carabinieri.
— La prego…
La donna spinse la porta in avanti. Amina, che era già sbilanciata con Luca in braccio, perse l’equilibrio.
Scivolò sul gradino coperto di ghiaccio e cadde all’indietro.
Sentì un colpo secco al gomito, un’ondata di dolore che le salì fino alla spalla.
Luca scoppiò a piangere, spaventato.
— Vada via! — gridò la Bianchi dall’alto dei gradini. — E si porti i suoi drammi altrove. Questo è un condominio serio.
La porta si chiuse con uno schianto che risuonò più forte del dolore al braccio.
Per un attimo, Amina rimase seduta sul marciapiede gelato, Luca che le stringeva il collo singhiozzando.
— Mamma fa male — piagnucolò lui.
— Anche alla mamma fa male… — sussurrò lei, con la gola stretta.
Si rialzò lentamente, il gomito che bruciava a ogni movimento.
Cominciò a tornare verso casa, passo dopo passo, con la sensazione che il mondo intero le pesasse sulle spalle.
Fu allora che sentì una voce alle sue spalle.
— Signora! Ehi, signora! Un attimo!
Amina si voltò.
Sull’uscio di una piccola casa che non aveva mai notato davvero – nascosta dietro un vecchio glicine, a pochi metri dall’angolo della via – c’era una donna anziana.
Capelli grigi raccolti in uno chignon basso, pelle scura come quella di Amina, ma segnata da più anni e più sorrisi. Un grembiule pulito legato in vita, un odore di pane appena sfornato che usciva dalla porta socchiusa.
— L’ho vista cadere — disse la donna, scendendo lentamente i due scalini. — E ho anche sentito cos’ha detto quella… signora. Venga qui, per favore. Lei e il piccolo.
Amina esitò.
— Non voglio disturbare…
— Sciocchezze — la interruppe l’anziana. — Aiutare chi ha bisogno non è mai un disturbo. Mi chiamo Marta. E lei?
— Amina.
— Bene, Amina. Allora, per favore, Amina, venga dentro prima che quel bambino prenda davvero una polmonite.
Il tono non ammetteva repliche, ma era pieno di calore.
Amina la seguì.
La casa di Marta era piccola ma calda.
Un tappeto spesso, una stufa a pellet che faceva un rumore rassicurante, scaffali con foto in cornici di legno, un leggero profumo di lavanda e pane.
— Si sieda lì — indicò Marta una poltrona morbida. — Vediamo il piccolo campione.
Luca, ancora singhiozzante, si lasciò visitare con una serietà improvvisa.
Marta gli misurò la febbre con un vecchio termometro digitale, gli guardò la gola, ascoltò il respiro con uno stetoscopio che sembrava avere quasi la sua età.
— Un raffreddore bello tosto, ma niente di drammatico — sentenziò. — Qui ho lo sciroppo per bambini. E in frigorifero c’è il latte. Vediamo se riusciamo a convincerlo a bere qualcosa di caldo.
Preparò latte tiepido con un filo di miele, mentre Amina si massaggiava il gomito dolorante.
— Si è fatta male? — chiese, senza alzare lo sguardo, ma evidentemente notando il movimento.
— Niente di rotto, credo. Solo una bella botta.
— Posso darle anche qualcosa per il dolore, dopo. Ma prima sistemiamo lui.
In pochi minuti, Marta riuscì a far bere al piccolo qualche sorso di latte e a fargli prendere la prima dose di sciroppo.
Luca si calmò, gli occhi si fecero pesanti. Si addormentò sul divano, con una coperta di lana fatta a mano fin sopra il naso.
Amina li guardava, incapace di parlare.
— Perché… perché sta facendo tutto questo per noi? — riuscì a dire alla fine. — Non mi conosce neppure.
Marta si sedette nella poltrona di fronte, incrociando le mani in grembo.
Con l’indice giocherellava con una collanina d’argento al collo: un ciondolo ovale, vecchio, con piccoli disegni incisi.
— Perché so cosa vuol dire essere sola con un figlio malato e nessuno che ti apre la porta — rispose piano. — Anni fa ero io a bussare in giro con un bambino in braccio. Qualcuno mi aiutò. Qualcun altro, come la signora di prima, mi chiuse la faccia sullo stipite.
Fece un sorriso triste.
— Mia madre diceva sempre: “La gentilezza torna indietro quando meno te lo aspetti”. Io ho deciso di crederle. E a quanto pare non aveva tutti i torti.
Si alzò, andò in cucina, tornò con una busta di carta piena.
— Qui ci sono latte, pasta, un po’ di carne, qualche verdura. Niente di lussuoso, ma per qualche giorno non dovrà preoccuparsi.
E qui… — tirò fuori una piccola busta bianca — c’è un piccolo aiuto per le bollette o per quello che le sembra più urgente.
Amina fece per rifiutare.
— Non posso accettare. Lei non sa nulla di me…
— So quello che basta — la fermò Marta. — So che è venuta a chiedere aiuto per suo figlio, non per sé. So che nonostante tutto ha ancora la forza di dire “per favore” e “grazie”. E so che non è semplice farlo in un quartiere dove molti fanno finta di non vedere.
Le prese la mano e ci infilò la busta.
— Non si azzardi a ridarmela, Amina. Ho più anni di lei, e più pensione di quella che riesco a spendere. Non ho figli in casa. Lasci che questa vecchia signora si senta ancora utile.
Amina guardò la collanina al collo di Marta.
— È molto bella — disse, per cambiare discorso e perché lo pensava davvero. — Sembra una cosa di famiglia.
Marta abbassò lo sguardo sul ciondolo, che luccicava alla luce della lampada.
— Lo è — disse in un soffio. — Me l’ha dato mio figlio, il giorno del suo settimo compleanno. Poco dopo… ci fu un incendio nel palazzo in cui vivevamo, oltre Dora. Nel caos, l’ho perso di vista. Hanno portato via la gente in fretta, bambini compresi. Per anni l’ho cercato. Non l’ho mai più trovato.
Restò un attimo in silenzio, tenendo il ciondolo tra le dita.
— Da allora mi sono detta che, se non posso più prendermi cura del mio bambino, posso almeno occuparmi dei figli degli altri, quando ne hanno bisogno.
Amina sentì qualcosa stringerle la gola.
— Mi dispiace, Marta. Non so cosa dire.
— Non deve dire nulla — rispose l’anziana, risollevandosi. — Deve solo fare una cosa: quando sarà in piedi, in futuro, e vedrà qualcun altro cadere come lei oggi… si ricordi di questa giornata. E apra la porta.
Quando Amina e Luca uscirono da casa di Marta, un’ora dopo, il mondo sembrava leggermente diverso.
Il gomito faceva ancora male, l’affitto era ancora lì, i problemi non erano spariti.
Ma c’era qualcosa che non sentiva da tempo.
Speranza.
Un filo sottile, ma forte.
Tre giorni passarono in fretta.
Luca stava meglio. La febbre era sparita, l’appetito tornato con interesse.
Ogni volta che vedeva una moto in fondo alla via, correva alla finestra gridando:
— Amici! Amici di moto!
Ma non erano mai loro. Solo scooter frettolosi, qualche furgone, la vita normale che riprendeva.
Amina usò i soldi di Marta con una cura quasi religiosa: medicine, spesa essenziale, pagamento delle bollette più urgenti.
Nella busta c’erano duecento euro e un biglietto, scritto con la stessa calligrafia precisa della donna:
«Per una mamma che mi ricorda me stessa, anni fa.
Tieni la testa alta. I giorni migliori arrivano.
Marta.»
Il ristorante in casa era ancora vuoto.
Amina continuava a cucinare qualche piatto ogni giorno, più per non perdere la mano che per altro. Di clienti, quasi nessuno.
Il quarto giorno, mentre preparava dell’impasto per delle crocchette di patate, sentì qualcosa di strano.
All’inizio pensò che fosse un camion lontano.
Un ronzio basso, continuo.
Luca smise di giocare e alzò la testa.
— Mamma… che cos’è?
Il pavimento tremò leggermente.
I bicchieri nel mobiletto vibrarono.
Il ronzio diventò rombo.
— Non può essere… — sussurrò Amina, andando verso la finestra.
Scostò la tenda.
All’inizio vide solo il fondo della via, dove la strada si stringeva. Un punto scuro, indistinto.
Poi quel punto cominciò ad allargarsi, a muoversi, a scintillare.
Moto.
Non dieci. Non venti.
Decine. Centinaia.
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