Quaranta motociclisti assaltano una casa di riposo per liberare un ex pompiere di 89 anni dimenticato

Quaranta motociclisti entrarono di colpo nella casa di riposo per “rapire” un ex vigile del fuoco di 89 anni.
Lui sedeva da tre anni sempre allo stesso posto, vicino alla finestra, guardando i piccioni sul cortile interno e aspettando, in silenzio, che la vita finisse.

Si chiamava Enrico “Falco” Moretti. Per tutti a Residenza Sereno Argento era solo un altro anziano un po’ confuso, con una cartellina piena di diagnosi e un braccialetto di plastica al polso.

Nessuno lì dentro sapeva il suo segreto.

Nel 1950, tornato dal dopoguerra e anni di servizio come vigile del fuoco in una grande città del Nord Italia, Enrico aveva fondato uno dei più antichi moto–club solidali del Paese: “Le Aquile del Fuoco”.
Un gruppo di vigili del fuoco, ex soccorritori, operai e piccoli artigiani che usavano le moto per raccogliere fondi, portare aiuti nei paesi colpiti da alluvioni, incendi, frane.

I suoi “fratelli di strada” avevano appena scoperto che Enrico era ancora vivo.

Ci avevano messo diciotto mesi a rintracciare il loro fondatore scomparso. Avevano seguito voci, vecchie foto, pezzi di articoli di giornale, fino a trovarlo lì: chiuso in una casa di riposo, imbottito di calmanti ogni volta che diceva di voler “risalire in moto”.


«Dov’è?» chiese una voce grossa all’ingresso.

L’uomo che parlava era enorme, con la barba grigia e una giacca di pelle consumata, coperta di toppe. Sulla schiena, il simbolo delle Aquile del Fuoco: un casco da pompiere con due ali e una ruota in fiamme. Quel logo l’aveva disegnato Enrico in persona, settant’anni prima.

L’impiegata alla reception impallidì. La sua mano si mosse istintivamente verso il pulsante d’allarme sotto il bancone.

«Signore, le visite sono consentite solo fino alle—»

«Enrico Moretti.» la interruppe l’uomo, che tutti chiamavano Orso, ma sul documento c’era scritto Marco Ferri.
«Numero di stanza. Adesso.»

La porta dell’ufficio della direzione si aprì di scatto.

«Che cos’è questo caos?» sbottò la direttrice, la dottoressa Conti, i capelli raccolti in un chignon perfetto e la cartellina stretta al petto. «Qui non accettiamo bande di motociclisti. Se non andate via subito chiamo i carabinieri.»

È lì che avrei dovuto starmene zitta.

Ma io, Anna, ero stata l’infermiera di Enrico per due anni. Lo avevo visto spegnersi un po’ alla volta, giorno dopo giorno. Lo avevo sentito raccontare cento volte la stessa storia: le moto, la strada, i soccorsi nelle notti di pioggia, i bambini salvati dal fiume.
Sapevo benissimo che per lui quei “motociclisti rumorosi” non erano una minaccia. Erano casa.

E prima che potessi fermarmi, le parole mi uscirono da sole:

«Stanza 212. Secondo piano, in fondo al corridoio.»

La dottoressa Conti si girò di scatto verso di me, gli occhi pieni di rabbia.

«Anna! Lei è licenziata all’istante!»

«Meglio così,» risposi, con un coraggio che non sapevo di avere. «Sono stanca di vedere imbottire di farmaci persone ancora lucide solo perché sono… scomode.»

I motociclisti si erano già mossi verso le scale. I loro stivali pesanti risuonavano sul linoleum, uno dopo l’altro, come un tamburo di guerra.

Io li seguii.

Dentro di me sapevo che stava per succedere qualcosa che non avrei mai dimenticato.


Ma quello che accadde quando aprirono la porta di Enrico fu la scena più bella e più straziante che abbia visto in trent’anni di lavoro in corsia.

Enrico era sulla sua sedia a rotelle, con la solita tuta grigia che indossava ogni giorno.
Guardava fuori dalla finestra il parcheggio, dove di solito c’erano solo due utilitarie e un furgone per le forniture. Quel giorno, però, il piazzale era pieno di moto.

Le sue protesi acustiche erano nel cassetto. La direttrice diceva sempre che “si agitava” quando sentiva troppo rumore.

Orso si avvicinò piano, con una delicatezza che non ti aspetteresti da uno così grande.
Si inginocchiò accanto alla sedia a rotelle e posò una mano enorme, ma leggera, sulla spalla di Enrico.

«Falco,» disse con voce bassa. «Falco, sono io… Marco. Quel ragazzino che hai messo in sella nel ’74, ti ricordi? Quello che cadeva sempre alla seconda curva.»

Enrico girò la testa lentamente. I suoi occhi velati cercarono di mettere a fuoco il volto davanti a lui. Le labbra si mossero, ma non uscì alcun suono.

«Ti abbiamo trovato, Falco,» continuò Marco. «Siamo tutti qui. Tutto il club. Ti cerchiamo da anni.»

La mano tremante di Enrico salì piano, sfiorando le toppe sulla giacca di Marco. Le dita ripassarono quel simbolo: il casco, le ali, la ruota in fiamme.

Quel disegno era uscito dalla sua mano, in una cucina fredda, nel 1950.

«I miei… ragazzi?» sussurrò, la voce quasi un soffio.

«Sì, Falco. I tuoi ragazzi.»

Fu allora che Enrico cominciò a piangere.

Non lacrime tranquille.
Pianti profondi, con il petto che si scuoteva, il respiro spezzato. Tre anni di isolamento, di sedativi a orari fissi, di frasi tipo “basta con queste fantasie, signor Enrico” esplosero tutti insieme.

Uno dopo l’altro, gli altri motociclisti entrarono nella stanza. Uomini con i capelli bianchi, il viso segnato dalle rughe, il passo un po’ incerto ma lo sguardo vivo. Sulla schiena, tutti lo stesso stemma.

Alcuni Enrico li riconobbe subito e li tirò a sé con una forza che nessuno immaginava avesse ancora.
Altri erano figli e nipoti dei membri storici, venuti a rendere omaggio al fondatore.

«Ci avevano detto che eri morto,» disse uno, con la voce rotta. «Tua famiglia ha raccontato che ti eri spento cinque anni fa. Abbiamo fatto pure una moto–parata in tua memoria.»

«Famiglia…» sputò quasi la parola Enrico, con amarezza. «Mio figlio voleva la casa. Mia figlia i risparmi. Quando ho rifiutato di firmare tutto, mi hanno portato qui. “Solo per qualche mese”, dicevano.»

Dietro di noi comparve la dottoressa Conti con due addetti alla sicurezza.

«Questo signore ha una grave forma di demenza,» annunciò dura. «Si inventa storie di moto e club inesistenti. La famiglia ha lasciato indicazioni precise: nessuna visita da parte di persone che possano alimentare le sue fantasie.»

Io tirai fuori il telefono dalla tasca del camice.

Non era la prima volta che sentivo quelle frasi.

Quando Enrico aveva iniziato a raccontarmi di alluvioni, di strade di montagna di notte, di colonne di moto che portavano coperte e medicine, avevo pensato anch’io che fossero forse ricordi confusi.
Poi una sera, a casa, avevo cercato su internet.

Alzai lo schermo davanti a tutti.

«Questo è Enrico Moretti nel 1950,» dissi. «Fondatore del moto–club solidale “Aquile del Fuoco”, dopo un intervento ai margini del Po.»

Scorrii le immagini.

«Qui è nel 1966, guida una sfilata di moto per raccogliere fondi per le famiglie colpite da una frana in montagna.
E questa è una foto dell’83: il suo gruppo consegna un assegno milionario a un ospedale pediatrico.»

Guardai la direttrice negli occhi.

«Queste sono le sue “fantasie”.»
Feci un passo avanti. «Avete sedato un uomo che ha passato la vita a tirare fuori la gente dalle macerie e dall’acqua. Solo perché la sua verità non coincideva con i vostri moduli.»

«La famiglia ha nominato un amministratore di sostegno,» ribatté la dottoressa Conti, stringendosi nel tailleur. «Non potete portarlo via. È sotto tutela.»

«La famiglia non si è fatta vedere da due anni,» dissi io. «Io sono qui tutti i giorni. Non ho visto una sola visita.»

Marco si alzò in piedi.

«Lo portiamo via noi.»

«Voi non potete semplicemente portar via un ospite!» gridò la direttrice. «Chiamo immediatamente i carabinieri!»

«Li chiami pure,» disse un altro motociclista, facendo un passo avanti.

Aveva i baffi bianchi, lo sguardo fermo.

«Sono stato comandante della polizia municipale per trent’anni. E quello che vedo qui si chiama maltrattamento.»
Indicò il braccialetto, la cartella, la faccia spenta di Enrico. «Farmaci dati per tenerlo buono, isolamento dal suo gruppo, nessun ascolto della sua storia.»

Un uomo con gli occhiali si fece avanti.

«Io sono avvocato, specializzato in tutela degli anziani. Se il signor Moretti è in grado di esprimere la sua volontà, non potete impedirgli di andarsene.»

«Non è capace di intendere!» protestò la dottoressa Conti, quasi urlando.

«Lo dimostri,» rispose l’avvocato calmo. «Perché qui vedo una stanza piena di testimoni che dicono il contrario.»

Tutti guardarono Enrico.

Lui, con un filo di voce, mormorò: «Prima… i miei… le mie cose. Cassetto in basso… sotto le coperte.»

Sapevo cosa cercava.

Lo avevamo nascosto insieme mesi prima, quando la direttrice aveva detto che “certi simboli non sono adeguati a un ambiente sereno”.

Aprii il cassetto, sollevai una coperta grigia e tirai fuori un vecchio gilet di pelle, morbido come burro, coperto di toppe e spillette. Era la sua vita cucita lì sopra: città, raduni, interventi, piccoli ricordi.

Gli occhi di Enrico si illuminarono.

Glielo infilai sulle spalle, sopra la tuta. Le sue spalle curve si raddrizzarono. Il mento si alzò.

Per un attimo, gli anni scomparvero. Davanti a me non c’era più un anziano fragile, ma il capo di un gruppo, un uomo abituato a decidere sotto la pioggia e sotto il fuoco.

«Adesso,» disse piano, ma con voce ferma. «Adesso sono pronto.»


«Non lo potete portare via,» insistette la direttrice. «È contro tutte le procedure. Sarò costretta a chiamare la forza pubblica.»

«Chiami chi vuole,» disse Marco. «Ma noi non lasciamo qui il nostro Falco.»

Uno degli addetti alla sicurezza, un ragazzo giovane, guardò Enrico, poi guardò le foto sul telefono, poi il gruppo di uomini con le lacrime agli occhi.

Fece un passo indietro.

«Io… non mi sento di fermare un uomo che vuole uscire da solo,» mormorò. «Non è un carcerato.»

«Enrico,» dissi, avvicinandomi. «Dove vuole andare? Lo deve dire lei.»

Lui mi fissò con occhi insolitamente chiari.

«Voglio sentire il vento,» disse. «Almeno un’altra volta. Voglio ricordarmi chi sono, prima di morire chiuso in questa stanza color beige.»

La direttrice scosse la testa.

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