Quaranta motociclisti assaltano una casa di riposo per liberare un ex pompiere di 89 anni dimenticato

«Lei non può più andare in moto. Ha ottantanove anni, fa fatica a stare in piedi.»

Enrico abbozzò un sorriso ironico, quasi birbante.

«Sono andato in moto quando qui intorno non c’erano nemmeno i semafori,» rispose. «Il corpo dimentica qualche gradino… ma la moto no.»

Marco annuì.

«Falco, ti abbiamo portato la tua moto.»

La testa di Enrico scattò su.

«La mia…?»

«La vecchia rossa del ’58,» spiegò Marco. «Tuo nipote l’aveva venduta a un collezionista. Ci abbiamo messo sei mesi a trovarla, altri sei a convincerlo a ridarcela. Ma adesso è giù nel parcheggio. Sistemata, lucida. Come la lasciasti tu.»

Enrico ricominciò a piangere.

«Avete… trovato Lucia?» sussurrò. Era così che chiamava la sua moto. «Avete riportato indietro la mia Lucia?»

«Hanno contribuito tutti,» disse un altro. «Vecchi membri, nuovi ragazzi, gruppi di altre città. Tutti volevano che Falco tornasse in sella.»


Lo portarono lungo il corridoio, sulla sedia a rotelle, come se stessero accompagnando un re.
Dalle stanze spuntavano teste curiose.

«Enrico! Avevi ragione!» gridò la signora Teresa, 85 anni, che a colazione si era sempre seduta accanto a lui. «Non erano fantasie!»

«Portateci via anche noi!» urlò il signor Giacomo dal fondo del corridoio.

La direttrice tentò l’ultima carta.

«Vi denuncerò tutti! E lei,» mi indicò con un dito teso, «non metterà mai più piede in una struttura seria.»

Tirai giù il mio cartellino con il nome e lo appoggiai sul bancone accanto al registro presenze.

«Io testimonierò su ogni sedativo dato solo per comodità,» dissi. «Su ogni richiesta ignorata, su ogni volta che ha detto “io ero qualcuno” e vi siete messi a ridere.»

Quando arrivammo nel parcheggio, il rumore fu assordante.

Non c’erano solo quaranta moto. Erano molte di più. Altre continuavano ad arrivare, una dopo l’altra, con il ruggito dei motori che riempiva l’aria di qualcosa che somigliava alla libertà.

In mezzo al piazzale, brillava lei.

Una moto d’epoca, rossa, con la sella nera e i dettagli cromati. Non citerò la marca: basti dire che era una signora moto, di quelle che non si vedono quasi più, se non nelle fiere d’epoca.

La moto di Enrico.
Quella con cui aveva viaggiato in tutta Italia, portato coperte durante le alluvioni, inseguito treni per consegnare documenti urgenti. Quella su cui aveva accompagnato per l’ultima volta sua moglie, una sera d’estate, sul lungolago.

Lo sollevarono dalla sedia a rotelle con una dolcezza incredibile. Avevano modificato la moto con qualche sostegno discreto: uno schienale più alto, pedane più larghe.

Ma quando le mani di Enrico toccarono il manubrio, fu chiaro che non serviva molto.

Era come se le dita si ricordassero da sole dove stringere.

«Mio Dio,» sussurrai. «Lo fa davvero.»

«Lo fa davvero,» confermò Marco. «E non sarà da solo. Lo accompagniamo tutti.»

Enrico girò la chiave. Il motore si accese con un rombo profondo. Chiuse gli occhi, inspirò quell’odore di benzina e olio, e quando li riaprì sembrava avere vent’anni di meno.

«Anna,» mi chiamò. «Vieni qui.»

Mi avvicinai. Lui mi prese la mano con la sua, ruvida e calda.

«Grazie,» disse. «Per avermi creduto, quando tutti dicevano che ero matto. Per aver nascosto il gilet. Per aver detto il numero della stanza.»

«Lei merita di essere libero,» risposi, con le lacrime che mi scendevano sul viso.

«Libero dovresti esserlo anche tu. Voi tutti, là dentro,» mormorò, lanciando un’occhiata alla facciata color crema della casa di riposo. «Quello non è vivere. È solo aspettare.»

Strinse la mia mano un’ultima volta.

«Potrei non tornare,» disse piano. «Potrei morire su questa moto oggi. Ma è meglio che morire in quel letto, dimenticato e mezzo addormentato.»

Inspirai a fondo.

«Lo so,» dissi. «Vada, Falco. Vada a prendersi il suo ultimo pezzo di cielo.»

Lui sorrise. Poi guardò Marco.

«Portami a casa, figliolo.»


Il rombo di più di cento moto che partono insieme è qualcosa che ti entra nelle ossa.

Enrico, a ottantanove anni, uscì da quel parcheggio al centro del gruppo, circondato da una scorta di moto che lo proteggeva ai lati, davanti e dietro.
Gli automobilisti si fermavano, qualcuno tirava fuori il telefono per filmare, ma a me interessava solo una cosa: il sorriso sul suo viso.

Io e la direttrice restammo lì, in piedi, a guardare le moto diventare punti piccoli sulla strada.

Lei parlava al telefono, con qualcuno dell’amministrazione, cercando di spiegare come fosse stato “rapito” un ospite da una banda di motociclisti.

Io, invece, sapevo che non si trattava di un rapimento.
Era una liberazione.


Enrico non morì quel giorno.
Neppure quella settimana.
Neppure quell’anno.

Le Aquile del Fuoco gli trovarono un piccolo appartamento sopra il loro circolo, una ex rimessa che usavano come sede. Si organizzarono a turni: chi gli cucinava, chi lo accompagnava alle visite, chi lo aiutava con i farmaci giusti, senza sedativi inutili.

Mangiarono insieme.
Ascoltarono le sue storie.
Lo consultarono sulle decisioni più importanti del club.

Enrico visse altri diciotto mesi.

Lucido. Circondato da affetto. Con la sua giacca di pelle appesa vicino al letto. La moto, “Lucia”, parcheggiata nel cortile, pronta per i piccoli giri nei dintorni quando la giornata era buona e il medico diceva “oggi si può”.

Morì nel sonno, una notte d’inverno, nel suo letto, con il gilet addosso.
Nella stanza c’erano i suoi “ragazzi”, seduti in silenzio, a fare la veglia.

Quando la notizia si sparse, la famiglia tornò improvvisamente interessata.

Improvvisamente ricordarono che Enrico aveva una moto d’epoca di grande valore. Forse c’erano anche soldi da qualche parte, vecchi conti correnti dimenticati.

Ma Enrico era stato più veloce di loro.

Con l’aiuto dell’avvocato del club, aveva scritto un testamento chiaro: la moto, i risparmi, tutto quello che possedeva andava alle Aquile del Fuoco, con una destinazione precisa.

Creare un fondo per aiutare altri anziani a non finire in strutture dove nessuno li ascolta.

Lo chiamarono “Fondo Falco”.


Andai al suo funerale.

La cerimonia si tenne in una piazza piena di moto e giubbotti di pelle. Vennero persone da tutta Italia, persino dall’estero. C’erano vecchi pompieri, infermieri, volontari della protezione civile, gente che aveva ricevuto aiuto da Enrico o dal suo gruppo in momenti difficili.

Il figlio e la figlia c’erano anche loro, vestiti di nero, con facce contrite.
Ma nel silenzio pesante della piazza era chiaro a tutti: loro avevano firmato i documenti per chiuderlo in una stanza, non per accompagnarlo all’ultima corsa.

Le moto si accesero tutte insieme, ma non partirono.

Tenne banco solo il ruggito dei motori, come un saluto.
Un’omelia di benzina, in onore di un uomo che aveva passato la vita in mezzo alle sirene.


La casa di riposo, nel frattempo, finì sotto ispezione.

Le autorità regionali trovarono più di una irregolarità: uso eccessivo di sedativi, mancanza di attività significative, scarsa attenzione alle storie personali degli ospiti.

La direttrice perse l’abilitazione a dirigere strutture di quel tipo.
La gestione fu cambiata, alcuni ospiti vennero trasferiti in posti migliori, altri rientrarono in famiglia, dopo anni di silenzi.

Io adesso lavoro in un’altra casa di riposo.

Non è perfetta, nessun posto lo è, ma lì si incoraggiano le visite, si attaccano alle pareti le foto del “prima”, si ascolta chi racconta la propria vita. Nessuno ride se un anziano dice: «Io una volta ero qualcuno.»

E, qualche domenica, succede una cosa speciale.

Un gruppo di motociclisti anziani arriva nel cortile.
Le moto sono vecchie, qualcuna arrugginita, qualcuna perfettamente tenuta.
Scendono con calma, si stirano la schiena, ridono tra loro, poi entrano nel reparto dei veterani, dei vecchi pompieri, degli ex volontari.

Portano foto.
Raccontano storie.
Ricordano a tutti che, prima di quelle pantofole e di quei camici, c’erano caschi, stivali, turni di notte.

Chiedono sempre di Enrico.

«Raccontaci ancora della sua fuga,» dicono. «Di quel giorno in cui il Falco è spiccato l’ultimo volo.»

Allora io, ogni volta, racconto.

Racconto di come è uscito da quel parcheggio al centro del gruppo, a ottantanove anni.
Di come rideva quando il vento gli tirava indietro la pelle del viso.
Di come i suoi fratelli lo hanno circondato, proteggendolo fino all’ultimo.

E aggiungo sempre:

«Ha dimostrato che non si è mai troppo vecchi per essere sé stessi.»

Loro annuiscono.
Questi uomini con la pelle consumata dal sole, le mani gonfie, le cicatrici che spuntano dalle maniche.

Sanno bene qual è la vera paura.

Non quella di morire.
Ma quella di essere cancellati. Di sentire dire che le loro storie sono solo “confusione”. Di diventare un numero di stanza e un elenco di farmaci.

Enrico Moretti è morto da uomo libero.
È morto da Falco, fondatore delle Aquile del Fuoco, circondato dai fratelli che avevano attraversato mezza Italia per riportarlo a casa.
Non da “ospite 212”, sedato e dimenticato in una stanza color beige.

Questa è la differenza fra la famiglia di sangue e la famiglia scelta.

La famiglia di sangue lo ha lasciato lì dentro.

La famiglia scelta ha sfondato le porte per portarlo via.

E ogni volta che, sulla tangenziale o in una strada di campagna, sento il rombo di una moto e vedo un uomo anziano in sella, con la barba grigia che spunta dal casco, penso a lui.

Penso a quel parcheggio, a quel gilet di pelle, al sorriso quando ha capito che non era mai stato dimenticato.

Questo è il vero significato di fratellanza:
non lasciare indietro nessuno.
Neanche quando passano gli anni.
Neanche quando il mondo ti dà per finito.

Mostrarsi.
Aprire le porte.
E, se serve, riportare un fratello a casa…

anche su una vecchia moto del ’58.

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