Quel ragazzo prese a schiaffi un vecchio eroe davanti a trenta camionisti
Il rumore è stato talmente secco che ho smesso di riempire il serbatoio a metà. Uno schiocco di mano contro pelle, poi il ticchettio di qualcosa di plastica che rotola sull’asfalto del parcheggio.
Mi giro, e lo vedo.
Giovanni Rinaldi, ottantun anni, ex vigile del fuoco in pensione, ginocchia a terra sull’area di servizio dell’autostrada, il sangue che gli scende dal naso.
Davanti a lui, un ragazzo che avrà avuto venticinque anni al massimo. Cappellino al contrario, tatuaggi sul collo, pantaloni mezzo caduti, il telefono in mano sollevato come una trofea. Dietro, altri due coetanei ridono e filmano.
«Dovevi farti i fatti tuoi, nonnino» dice il ragazzo, avvicinando la fotocamera alla faccia di Giovanni. «Questo sui social farà il botto. “Vecchio rompiscatole viene messo al suo posto”. Stai per diventare famoso, nonno.»
Quello che il ragazzo non sapeva era che Giovanni non aveva insultato nessuno. Aveva solo chiesto, con la sua voce un po’ tremante, di spostare l’auto dal posto per disabili, perché lui usa la bombola d’ossigeno e non ce la fa a camminare tanto.
Quello che il ragazzo non sapeva, soprattutto, era che quell’area di servizio sulla tangenziale era il nostro punto di ritrovo fisso. E che in quel momento, nella saletta dietro il bar, c’eravamo noi: una trentina di camionisti del gruppo “Fratelli della Strada”, riuniti per il nostro incontro mensile.
Io mi chiamo Marco Ricci, ma tutti mi chiamano “Bulldozer”. Sessantadue anni, quarantacinque passati al volante di un tir. Sono io che tengo insieme questo branco di teste dure che macinano chilometri per vivere.
Stavamo finendo la riunione sulla sicurezza quando abbiamo sentito il trambusto.
Attraverso il vetro ho visto Giovanni che cercava di rialzarsi, le mani che gli tremavano mentre palpava l’asfalto alla ricerca dell’apparecchio acustico volato via con lo schiaffo.
«Ragazzi» ho detto piano. «Abbiamo un problema.»
La cosa di Giovanni è che lui arriva lì ogni giovedì alle tre in punto. Da quindici anni. Da quando sua moglie Anna è morta.
Parcheggia sempre nello stesso posto – quello per disabili, con il contrassegno ben visibile sul cruscotto – entra piano appoggiandosi al bastone, prende un caffè ristretto, un bicchiere d’acqua e un gratta e vinci.
Il barista gli prepara il caffè senza neanche chiedere: corto, caldo, una bustina di zucchero. Giovanni si siede al solito tavolo vicino alla vetrata, grattugia il biglietto, racconta la stessa storia di quel vecchio incendio in montagna dove tirò fuori due bambini da una casa che stava crollando. Poi torna a casa sua, vuota ma piena di fotografie di Anna.
Tutti lo conoscono. Ha lavorato trent’anni in officina dopo aver lasciato il corpo dei vigili del fuoco. Ha riparato macchine gratis alle vedove, ai disoccupati, a chi non poteva pagare. Ha aggiustato caldaie in piena notte ai vicini anziani. Non ha mai chiesto niente in cambio.
Adesso era lì, in ginocchio, davanti a tre ragazzi che ridevano e lo filmavano per qualche manciata di “mi piace”.
Il ragazzo con il cappellino prende a calci l’apparecchio acustico, facendolo rimbalzare ancora più lontano. «Che c’è, nonno? Adesso non mi senti più? Ho detto: ALZATI!»
Le mani di Giovanni sono tutte sbucciate per la caduta. A ottantun anni la pelle non rimbalza, si apre. Il sangue si mescola alle macchie di olio sull’asfalto mentre cerca di spingersi su coi palmi.
«Per favore» mormora, senza sentire quanto forte parla. «Avevo solo bisogno di parcheggiare…»
«A nessuno importa di quello che ti serve!» interviene uno degli amici, ridacchiando. «I vecchi pensano ancora di comandare il mondo. Adesso è il nostro tempo.»
È lì che faccio un cenno.
Trenta camionisti si alzano in piedi contemporaneamente. Il rumore delle sedie che strisciano sul pavimento della saletta sembra un tuono. Il barista, che stava osservando nervoso da dietro la macchina del caffè, fa un passo indietro.
Non corriamo. Non c’è fretta. Uscendo uno dietro l’altro, con i giubbotti catarifrangenti e gli scarponi pesanti, sembriamo una processione lenta. Ma ogni passo fa vibrare il pavimento.
Il ragazzo è ancora così concentrato sul video che non ci nota subito.
«Dai, nonno, dì qualcosa alla camera. Chiedi scusa per aver rotto le scatole…»
Si ferma a metà frase quando la mia ombra gli copre la luce. Si gira, il telefono ancora in mano che registra, e si ritrova il mio petto a dieci centimetri dal naso. Poi alza lo sguardo. E lo alza ancora.
«C’è qualche problema?» gli chiedo, senza alzare la voce.
Cerca di fare il duro. «Sì. Questo vecchio ci ha mancato di rispetto. Gli abbiamo risposto.»
«Mancato di rispetto?» Guardo Giovanni, ancora a terra. «Giovanni Rinaldi? Quello che ha tirato fuori tua cugina dal fumo quando avevi otto anni?» dico, rivolto al ragazzo. «L’uomo che aggiusta gratis le macchine della metà del quartiere? Quello che va al centro anziani ogni settimana a fare compagnia a chi non ha nessuno? Quello lì?»
Vedo un lampo di riconoscimento negli occhi del ragazzo. Poi lo copre di nuovo con arroganza.
«Mi ha chiamato teppista» borbotta.
«No» riesce a dire Giovanni da terra. «Ho solo chiesto di spostare l’auto dal posto per disabili. Ho il permesso. La bombola…»
«Stia zitto!» Il ragazzo alza di nuovo la mano, pronto a colpirlo una seconda volta.
Gli afferro il polso a metà strada. Non con violenza, solo con la forza giusta per fermarlo. «Basta così.»
«Lasciami, vecchio! Questo è sequestro! Sto registrando, ti denuncio!»
«Benissimo» commenta Carlo, il mio vice, allargando le braccia. «Così nel video si vede anche te che prendi a schiaffi un signore di ottantun anni, disabile, in un parcheggio pubblico. Vedrai che ai carabinieri piacerà moltissimo.»
Il ragazzo tira il braccio e riesce a liberarsi. «Noi ce ne andiamo.»
«No» dico io. «Prima raccogli quell’apparecchio, chiedi scusa a Giovanni e poi aspettiamo insieme le forze dell’ordine.»
«Io non chiedo scusa a nessuno!»
Giovanni solleva la testa, gli occhi lucidi. «Lasciali andare, Marco. Sto bene.»
Lo guardo. Ha il viso gonfio, il labbro spaccato, le mani sanguinanti, l’apparecchio distrutto chissà dove. E chiede a me di lasciarli andare.
«Sei sicuro?»
«La violenza non aggiusta la violenza» sospira. «Anna lo ripeteva sempre.»
Il ragazzo scoppia a ridere. «Senti il filosofo. Senti il nonno santo. Dai, vecchio camionista, ascolta lui…»
Lo schiaffo che interrompe la frase non viene da me.
Viene da una donna appena scesa da una piccola utilitaria, ancora con la borsa sulle spalle e la divisa verde acqua dell’ospedale.
«Luca, ma sei impazzito?!»
Cammina verso di noi a grandi passi, gli occhi che lanciano fuoco. «Quello è il signor Rinaldi? È il signor Rinaldi per terra?!»
Il ragazzo – Luca – impallidisce. «Amore, posso spiegare…»
«Spiegare cosa?» Gli molla un altro ceffone, più forte del primo. «Che hai buttato a terra l’uomo che ha fatto aggiustare gratis la macchina a mia madre quando non avevamo un euro? L’uomo che ti ha consigliato di non buttarti dietro alle stupidaggini e ti ha pure trovato un lavoretto in officina, che tu hai rovinato rubando pezzi? A LUI hai messo le mani addosso?»
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