Quindici uomini con vecchie giacche dei vigili del fuoco, stivali pesanti e borse piene di peluche entrarono nel reparto pediatrico alle tre di notte.
Sembravano una piccola squadra di intervento d’emergenza capitata nel posto sbagliato: caschi sotto il braccio, giacche con rifrangenti consumati, mani grandi segnate dal lavoro. Eppure non andavano verso un incendio, ma lungo il corridoio del reparto oncologico pediatrico dell’ospedale cittadino.
Lucia Rinaldi, caposala da vent’anni e famosa in tutto l’ospedale per la sua disciplina ferrea, li vide uscire dall’ascensore e sbiancò. Riconobbe subito la direzione verso cui stavano andando: la stanza 12, dove il piccolo Luca, otto anni, stava morendo lentamente di leucemia. Da settimane era praticamente solo. I genitori, stremati dalla paura e dai debiti, si erano allontanati “per qualche giorno” e non erano più tornati.
La mano di Lucia si mosse da sola verso il telefono interno.
«Sicurezza al reparto pediatrico tre, immediatamente», sibilò. «Abbiamo più intrusi nel corridoio.»
Stava per aggiungere “potenzialmente pericolosi” quando un suono la bloccò.
Una risata. Una risata di bambino. Chiara, rotonda, incredibilmente viva. La prima risata che Lucia sentiva provenire dalla stanza 12 da almeno tre settimane.
Si voltò verso la porta semiaperta.
Il più grande dei volontari — un uomo enorme, con la barba grigia e il soprannome “Orso” ricamato sulla vecchia giacca dei Vigili del Fuoco — era in ginocchio accanto al letto di Luca. Spingeva un piccolo camion dei pompieri rosso sul lenzuolo, facendo il rumore della sirena con la bocca: «Nino-nino-ninooo!»
Luca, con il viso scavato dalla chemioterapia e gli occhi spenti dalla solitudine, rideva con una luce nuova, quasi infantile, che sembrava accendere tutta la stanza.
«Come facevi a sapere che amo i camion dei pompieri?» chiese Luca, con voce sottile ma eccitata.
Orso tirò fuori il cellulare dalla tasca e glielo mostrò. Sullo schermo c’era un post di social: una foto del letto di Luca pieno di disegni di autopompe, caschi, scale. Il volto del bambino non si vedeva, ma il messaggio era chiaro.
«La tua infermiera Elena ha scritto di te, piccolo collega», disse l’uomo piano. «Ha scritto che hai le riviste dei pompieri dappertutto, ma nessuno con cui parlarne. Così abbiamo pensato: non può restare da solo. Ed eccoci qui. Quindici “qualcuno”.»
Lucia alzò lo sguardo e vide Elena, la giovane infermiera del turno di notte, appoggiata al muro nell’angolo del corridoio. Piangeva in silenzio.
Aveva infranto il regolamento. Aveva parlato di un paziente sui social, anche se senza nome. Aveva organizzato visite non autorizzate in piena notte. Tutto ciò per cui Lucia, in teoria, avrebbe dovuto sospenderla.
Ma quello che accadde nei minuti successivi cambiò per sempre il modo in cui Lucia pensava alle regole, ai protocolli e alla medicina stessa.
I quindici uomini non si muovevano a caso. Si vedeva che l’avevano già fatto altre volte.
Uno iniziò ad attaccare piccole patch con caschi e scale su una bacheca sopra il letto. Un altro collegò un tablet a una videochiamata. Un terzo tirò fuori una giacca minuscola, da bambino, identica alle loro, con sopra una scritta: “Piccolo Soccorritore”.
«Era di mio figlio», mormorò Orso, tenendo la giacca tra le mani con una delicatezza che non ti aspetteresti da un uomo così grande. «L’ha “guadagnata” quando aveva più o meno la tua età. Anche lui aveva il cancro. Se n’è andato quattro anni fa. Ma mi ha lasciato un ordine chiaro: la giacca deve andare a un altro guerriero. Ho aspettato il bambino giusto. Credo sia arrivato il momento.»
Luca sfiorò con le dita magre le patch cucite sul petto della giacca, gli occhi spalancati.
«Era davvero sua?» sussurrò.
«Proprio sua. Si chiamava Matteo. Il bambino più coraggioso che abbia mai conosciuto…» La voce di Orso tremò leggermente. «Almeno fino a stanotte. Fino a quando ho conosciuto te.»
In quel momento arrivò la sicurezza: tre addetti pronti a intervenire. Videro gli uomini in giacca da pompiere, videro Lucia, e allungarono istintivamente le mani verso le radio.
«Tranquilli», sentì Lucia dire con la propria voce, prima ancora di pensarci. «Falso allarme.»
Uno degli addetti la guardò, confuso. «Ma ci ha chiamati per degli intrusi…»
«Mi sono sbagliata. Questi signori sono… visitatori autorizzati.»
«Alle tre di notte?»
«Circostanze speciali.» Il tono di Lucia non ammetteva repliche. «Potete tornare giù.»
Gli uomini esitarono, poi se ne andarono lentamente. Lucia sapeva che avrebbe dovuto spiegare, probabilmente sarebbe finita in direzione il mattino dopo. Ma nel frattempo, Luca si era tirato su a sedere per la prima volta dopo giorni, circondato da questi ex vigili del fuoco che lo trattavano come se fosse il capo della loro squadra.
«Ti va di conoscere gli altri della compagnia?» chiese uno dei volontari, sollevando il tablet.
Lo schermo si riempì di volti: decine di uomini e donne, molti con vecchie giacche dei vigili del fuoco, altri con felpe di associazioni di volontariato. Tutti salutavano Luca agitando la mano.
«Ciao Luca!» gridarono in coro. «Benvenuto tra i Fratelli del Soccorso!»
Uno mostrò la caserma di un piccolo paese di montagna. Un altro, da una città del Sud, inquadrò l’autopompa parcheggiata fuori. Un gruppo da un’altra regione fece partire la sirena per qualche secondo, ridendo.
Il rumore era sufficiente a svegliare mezzo reparto. Avrebbe dovuto portare lamentele, richiami, proteste.
Invece, Lucia vide qualcosa di diverso.
Piccole teste si affacciavano dalle altre stanze. Bambini con pigiami troppo grandi, alcuni senza capelli, altri con peluche stretti al petto. Si avvicinavano piano alla porta della stanza 12, attirati da quel suono tanto raro in quel corridoio: il suono della vita, della gioia.
«Possono entrare?» chiese Luca a Orso, guardando gli altri bambini in punta di piedi sulla soglia. «Gli altri?»
«Questa è la tua stanza, collega», rispose Orso. «Le regole le fai tu.»
In pochi minuti, la stanza 12 divenne incredibilmente piena. Quindici ex pompieri, otto bambini malati e alcune infermiere sbalordite osservavano questi uomini grandi e grossi sollevare i piccoli con una delicatezza infinita, facendoli sedere sulle ginocchia, spiegando come si usa una radio, come si fa un segnale con la mano.
Una bambina senza neanche un filo di capelli allungò una mano verso un tatuaggio a forma di fiamma sul braccio di Orso.
«Fa male?» chiese.
«Non più», rispose lui, sorridendo piano. «Come le tue cure. Fanno male adesso, ma poi ti rendono più forte.»
«Ho paura», bisbigliò lei.
«Anch’io ho paura, a volte», ammise Orso. «Sai cosa aiuta? Sapere che non sei sola. Avere fratelli e sorelle che ti tengono la mano quando tremi.» Guardò gli altri volontari. «Capita a tutti di aver paura. Ma insieme… insieme si diventa coraggiosi.»
Lucia uscì dalla stanza con il cuore stretto, alla ricerca di Elena. La trovò nel corridoio, con il viso rigato di lacrime, pronta a ricevere la ramanzina che sapeva di meritare.
«Mi dispiace, caposala», iniziò subito. «So di aver sbagliato. Ho scritto di un paziente, ho fatto entrare persone dopo l’orario di visita, ho… Luca è stato così solo. I genitori non rispondono più al telefono. È un bambino che sta morendo senza nessuno che gli voglia bene vicino e ho pensato che…»
«Hai pensato bene», la interruppe Lucia, sorprendendo se stessa tanto quanto Elena. «Hai fatto quello che io ho dimenticato, a volte, di fare. Hai visto un bambino che aveva bisogno di qualcosa che non si trova in farmacia.»
Dal vano della porta, si vedeva Orso che insegnava a Luca una stretta di mano “segreta”, mentre gli altri bambini imitavano il rumore della sirena, ridendo. Un bambino che non parlava da settimane faceva “nino-nino” sottovoce, seguendo il ritmo.
«Come li hai trovati?» chiese Lucia.
«Seguo la loro pagina da anni», spiegò Elena, asciugandosi il viso. «Sono ex vigili del fuoco, soccorritori in pensione o ancora in servizio, che fanno visite nei reparti pediatrici a Natale, per le feste, quando li chiamano. Ho mandato un messaggio privato, ho raccontato di un bambino che ama i pompieri ma non ha nessuno. Nel giro di un’ora avevano già organizzato tutto. Sono partiti da città diverse. Orso ha guidato per sei ore.»
Un giovane medico comparve nel corridoio, attirato dal vociare. Era da poco uscito dalla specializzazione, ancora pieno di entusiasmo e di regole precise.
«Che cosa sta succedendo qui?» chiese, guardando dentro la stanza. «Questo è un ambiente delicato. Queste persone devono andarsene immediatamente.»
Lucia sapeva cosa avrebbe dovuto dire. Avrebbe dovuto annuire, svuotare la stanza, riportare l’ordine.
Invece gli sbarrò la strada con calma.
«Dottore, qual è l’ultimo emocromo di Luca?» chiese.
«I globuli bianchi sono criticamente bassi, per questo—»
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