Ridevano del mio kit medico, ma quando la base è esplosa hanno scoperto chi era il vero fantasma

Ridevano del mio kit medico, ma quando la base è esplosa hanno scoperto chi era il vero fantasma

Ridevano quando mi è caduto il kit medico. Dicevano che ero stata presa “solo per le quote” e che non avrei mai saputo tenere in mano un fucile. Non avevano idea che, sette anni prima, ero il fantasma che aveva trascinato il loro generale fuori dall’inferno. Ma quando la base è piombata nel buio e il colonnello ha urlato il mio nome in codice, il sorriso del bullo è sparito: perché ha capito che la “debole infermiera” era l’unica cosa tra lui e un sacco per cadaveri.

PARTE 1

Il freddo alla Base Alpina Monte Rosso non era il solito freddo che ti fa venire la pelle d’oca. Era un freddo che cercava il midollo delle ossa, che ti entrava dentro piano piano e non ti mollava più. Erano le 05:00, il cielo aveva il colore di un livido violaceo, e io ero in formazione, immobile come una statua.

Mi chiamo sergente Sara Vitale.
Per i duecento allievi dell’istituto avanzato di comando, ero solo un trasferimento. Una “sanitaria”. Una dispensatrice di cerotti. Una che aveva passato la carriera a misurare la pressione e dare antidolorifici, e che adesso provava a “fare la soldatessa” con i duri.

Sentivo i loro sguardi addosso. Il peso del loro disprezzo era più pesante dello zaino che portavo sulle spalle.

«Controlla se trema», sussurrò una voce dietro di me. «Scommetto che sta tremando.»

«Corpo sanitario», sogghignò un’altra. «Sicuramente ha pregato in ginocchio per entrare alla Scuola di Comando. Bisognava riempire le quote.»

Non battei ciglio. Fissai dritto davanti a me il tricolore che sventolava sul pennone centrale. Avevo già fatto la guardia in posti con neve molto più alta e silenzi molto più rumorosi di questo cortile. Avevo aspettato bersagli che avrebbero fatto tremare questi ragazzi dai pantaloni stirati alla perfezione. Ma lì, in quel momento, ero solo Sara. Lo scherzo.

Poi arrivò il tenente Luca Moretti.

Moretti aveva ventisei anni, era costruito come un giocatore di rugby, e possedeva quell’arroganza di chi è cresciuto pensando che il fallimento capitasse sempre agli altri. Si fermò davanti a me, gli stivali che scricchiolavano sul ghiaccio. Profumava di dopobarba costoso e di superiorità.

«Trasferita», grugnì, guardandomi dall’alto in basso.

«Sergente Vitale», lo corressi. La mia voce era bassa, piatta, senza emozioni.

Moretti rise. Una risata umida, antipatica.
«Giusto. Vitale. Quella che mette i cerotti.» Si chinò verso di me, invadendo il mio spazio. «Sai, il comando non è fasciare le ferite, tesoro. È rompere le cose. Tu pensi davvero di saperle rompere?»

«Penso di saper eseguire gli ordini, signor tenente», dissi, con lo sguardo fisso sull’orizzonte.

«Vedremo», borbottò, voltandosi per farsi sentire dalla sua piccola corte. «Cinque euro che suona il campanello prima di venerdì. Le infermiere non hanno stomaco per la casa di tiro.»

Il gruppetto rise. Era una risata tagliente, che escludeva.

Io non reagii. Avevo imparato da tempo che l’uomo più rumoroso in una stanza è di solito il primo a cadere quando cominciano a sparare. Il mio lavoro non era vincere un concorso di simpatia. Il mio vero lavoro era un altro: osservare. Aspettare.

Alla fine della seconda settimana, le prese in giro passarono dai sussurri all’ostilità aperta.

In mensa, i vassoi finivano “per sbaglio” addosso a me. Durante l’addestramento fisico, i gomiti si allargavano un po’ troppo. Moretti era il capo di tutto, orchestrava una piccola campagna per farmi mollare.

«Ehi, Vitale!» gridò un pomeriggio, attraverso il percorso di ostacoli bagnato dalla pioggia. «Occhio a quel muro! Non vorremmo che ti si rompesse un’unghia e dovessi curarti da sola!»

Io lo ignorai, superando il muro di tre metri e mezzo con un movimento silenzioso, fluido. Nessuno ci fece caso, tutti troppo occupati a ridere della sua battuta.

Atterrai nel fango, mi pulii le mani e andai al punto acqua. Fu lì che sentii uno sguardo diverso su di me. Non quello dei derisori, ma qualcosa di più affilato.

Caporale Nina Torres.
Era minuta, silenziosa, il tipo di militare che ascolta più di quanto parli. Stava fissando le mie mani. In particolare, il modo in cui stavo smontando il fucile per pulirlo dal fango. Non guardavo l’arma. Guardavo la linea degli alberi, controllando il perimetro, mentre le dita si muovevano veloci, quasi meccaniche, guidate da una memoria muscolare che un semplice corso non ti dà.

Torres aggrottò le sopracciglia. Si avvicinò, fingendo di riempire la borraccia.

«Smonti il fucile come un maestro cieco», sussurrò, appena udibile sotto la pioggia. «Ai sanitari non lo insegnano così.»

Esitai. Solo per una frazione di secondo. «Ho avuto buoni istruttori», dissi, rimontando l’otturatore con un clic secco.

«Ho visto una cosa», insistette, la voce che tremava appena. «Ieri. Negli spogliatoi. Quella toppa che tieni nella tasca interna. Filo grigio. Lupo nero.»

Mi irrigidii. Voltai lentamente la testa verso di lei. La visiera del berretto gocciolava, nascondendo il gelo nei miei occhi.

«Non hai visto niente, Torres.»

«Lupo di Ferro», sussurrò. «Mio zio… era in ricognizione. Mi raccontava storie di una unità che ufficialmente non esisteva. Diceva che portavano quella toppa. Diceva che erano fantasmi.»

«Tuo zio racconta storie da bar», dissi, rimettendo il fucile a tracolla. «Dimenticalo.»

Ma lei non dimenticò. E neanche il mondo, a quanto pare.

Il punto di svolta arrivò un martedì sera. L’aula magna era piena. L’aria sapeva di lana bagnata e di cera per pavimenti. Il tenente Moretti era al podio, appoggiato allo schermo con il solito sorriso insopportabile, e ci spiegava la sua lezione su “Superiorità tattica in ambiente urbano”.

«Bisogna essere aggressivi», diceva, picchiettando sullo schermo. «Si sfonda la porta e si domina la stanza. L’esitazione è roba da deboli. L’esitazione è per il personale di supporto.» Lanciò un’occhiata maliziosa verso di me, seduta in fondo.

Le luci si abbassarono per la presentazione.

Poi, lo schermo sfarfallò.

Non fu un semplice calo di tensione. Il proiettore divenne prima tutto bianco, poi passò a una specie di neve elettronica. Un ronzio basso, stonato, cominciò a vibrare sotto il pavimento.

Sul monitor della cattedra, proiettato in grande alle spalle di Moretti, comparve una notifica.

OVERRIDE DI SISTEMA
SCANSIONE BIOMETRICA: NEGATIVA
ACCESSO PRIORITARIO: AVVIATO

«Che cos’è ‘sta cosa?» balbettò Moretti, picchiando sui tasti del portatile. «Chi sta scherzando con il segnale?»

Il testo cambiò. Il carattere divenne rosso, frastagliato, su sfondo nero.

CODICE ACCESSO: AARON WOLF UNO
STATO: ATTIVO

La sala cadde nel silenzio assoluto. Perfino l’aria condizionata sembrava trattenere il fiato.

Il mio tablet — spento e appoggiato sul banco davanti a me — vibrò una volta. Nella quiete, il suono sembrò uno schiocco.

Abbassai lo sguardo. Un nuovo messaggio. Nessun mittente. Nessun oggetto. Solo quattro parole, che brillavano nel buio.

«Lupo di Ferro, in attesa.»

Il mio cuore non accelerò. Rallentò. Era la reazione fisiologica di un predatore che riconosce una minaccia. Sentii il sangue diventare più freddo.

Dall’altro lato del corridoio, Nina Torres vide la luce del tablet. Vide il messaggio. Guardò lo schermo, poi me. Il colore le sparì dalla faccia. Aveva capito.

«È uno scherzo?» gridò Moretti, la voce incrinata. «Vitale! Sei stata tu? Hai violato il sistema per sentirti importante?»

Scese dal podio a passi pesanti, salendo lungo la fila verso di me, il viso arrossato.

«Ti sembra divertente? Interferire con una lezione ufficiale? Ti farò processare prima che tu possa…»

Le luci si spensero del tutto. Buio assoluto.

«Nessuno si muova!» urlò qualcuno.

Nel buio, le doppie porte in fondo all’aula si spalancarono con un botto secco.

Passi pesanti, regolari, risuonarono sul pavimento di marmo. Toc. Toc. Toc.

Le luci di emergenza si accesero, tingendo tutto di rosso. Nella porta, si stagliava la sagoma di un uomo enorme.

Il colonnello Gianni Rinaldi.

Era una leggenda. Il tipo di ufficiale la cui fila di nastrini raccontava trent’anni di operazioni in mezzo mondo. Sembrava scolpito nella pietra e nei brutti ricordi.

Non guardò i duecento allievi. Non guardò il tenente Moretti, che tremava.

Camminò dritto lungo il corridoio centrale, il cappotto lungo che gli svolazzava dietro come un mantello. Si fermò a dieci passi dal podio, si voltò e scrutò la sala.

«Tenente Moretti», disse. Non alzò la voce, ma nell’aria si sentì un peso nuovo.

«Signor sì!» Moretti scattò sull’attenti, sollevato. «Signor colonnello, c’è un problema tecnico, forse un’intrusione informatica, ritengo che il sergente Vitale…»

«Chiudi la bocca, tenente», disse Rinaldi. Non urlò. Lo dichiarò come si dichiara il tempo: piove. Punto.

La mandibola di Moretti si richiuse.

Rinaldi girò il capo. Gli occhi scorsero le ultime file, fino a incrociare i miei.

«Lupo di Ferro», disse.

Il nome restò sospeso nell’aria.

«In attesa», risposi. La mia voce era limpida, tagliò il brusio come un coltello.

«Davanti a me», ordinò.

Mi alzai. La sedia strisciò sul pavimento. Passai accanto a Nina Torres, che mi guardava a bocca aperta. Camminai tra le file di allievi che, per settimane, avevano riso delle mie “mani da infermiera”.

Scendevo la scalinata con passi lenti, pesanti, la camminata che avevo tenuto nascosta per mesi. Mi fermai a un metro da Rinaldi. Non salutai. Mi misi in una posizione di riposo attento: non quella del semplice allievo, ma quella di chi è abituato a intervenire.

Rinaldi mi fissò. Per un attimo, il suo volto di granito si ammorbidì, appena.

«Ci hanno trovati, Sara.»

«Lo so», risposi. «Ieri la telecamera quattro sul perimetro ovest ha sfarfallato. Uno virgola sette secondi. Non era un semplice guasto.»

«Non lo era», confermò.

«Signor colonnello?» azzardò Moretti, da un lato. «Non capisco. Lei è… è una sanitaria.»

«Una sanitaria», ripeté Rinaldi, assaporando la parola. Si voltò verso la classe. «È questo che pensate?»

Puntò un dito verso di me.
«Sette anni fa, su un altipiano innevato in una zona di guerra classificata, una squadra di dodici operatori speciali era circondata da oltre trecento combattenti ostili. Non avevano più munizioni. Stavano dissanguando. Il comando li aveva dati per spacciati. Hanno cancellato il file della missione per salvare la faccia.»

Fece un passo verso Moretti.
«Io ero il capitano di quella unità. Ero sdraiato nella neve, aspettando di morire.»

Indicò me.
«Poi è arrivata lei

Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬

Scroll to Top