Ridevano della donna di 53 anni al cancello militare, finché lo schermo rosso non li zittì per sempre

Ridevano della donna di 53 anni al cancello militare, finché lo schermo rosso non li zittì per sempre

Risero della donna di 53 anni ai cancelli della base segreta,
finché lo schermo non diventò rosso fuoco

Parte 1

Ero ferma al posto di blocco del Centro per le Operazioni Speciali Navali su una piccola isola del Mediterraneo, e mi accorsi che la mia mano tremava leggermente mentre porgevo il tesserino.

A cinquantatré anni impari a gestire questi piccoli tradimenti del corpo, quelle vibrazioni tra adrenalina ed età che arrivano quando meno te le aspetti.
Ma quella mattina era diverso.
Quella mattina sembrava di tornare a casa… in un posto che non mi riconosceva più.

Indossavo abiti civili: jeans consumati, una semplice maglietta tecnica della Marina, i capelli grigi raccolti in una coda alta. Probabilmente sembravo più una mamma venuta a lasciare un pacco al figlio militare che la relatrice principale di un convegno sulla medicina in operazioni speciali.

I due giovani marinai al cancello, a malapena con la barba, mi guardavano con quella miscela perfetta di cortesia d’ordinanza e sospetto malcelato.
Porgo il tesserino militare.

«Signora, questa è un’area riservata,» disse il primo, un sottocapo. Teneva il mio tesserino in mano ma non lo passava allo scanner, gli occhi che andavano dal mio volto alla recinzione alta con il filo spinato. «Da questo ingresso entrano solo i membri autorizzati delle unità speciali navali.»

«Lo so,» risposi, cercando di mantenere il tono calmo. «Sono qui per il convegno di medicina operativa. Faccio parte dei relatori.»

Aggrottò la fronte. «Il convegno? Signora, è per medici di reparto, operatori speciali, personale delle squadre d’assalto… non per il personale sanitario generico della Marina.»

Il secondo marinaio, un ragazzo appena arruolato, mormorò al collega, abbastanza forte però da farmi sentire:
«Sarà un’infermiera o qualcosa del genere. Magari tiene un corso di primo soccorso per il personale dell’ospedale principale.»

Quel commento pizzicò in un punto che conoscevo fin troppo bene. Era la vecchia, familiare puntura dell’invisibilità.
Ero stata un fantasma per ventiquattro anni: avrei dovuto esserci abituata.

«Sono nell’elenco dei relatori,» dissi, con voce un po’ più ferma. «Comandante Chiara Rinaldi

Il sottocapo sospirò piano, chiaramente pronto a spiegarmi con garbo quale fosse l’ingresso “giusto” per il personale normale. Poi si voltò verso il terminale e finalmente passò il mio tesserino nello scanner.

Ci fu mezzo secondo di silenzio.

Poi, il monitor non emise solo un bip. Lampeggiò.

Lampeggiò di un rosso profondo, intenso, impossibile da ignorare.

Non era il rosso standard di un allarme o di un accesso negato. Era una tonalità particolare, usata solo in certi reparti. Un colore che, in pratica, significava: fermate tutto.

Sul monitor apparve il mio profilo:

RINALDI, CHIARA – COMANDANTE MEDICO
UNITÀ SPECIALI DELLA MARINA
LIVELLO DI ACCESSO: 1
AVVISO: PERSONALE VIP – PRIORITÀ ASSOLUTA

I due rimasero immobili. Il sangue sparì dai loro volti. Guardavano lo schermo, poi me, poi di nuovo lo schermo, come se il cervello non riuscisse a collegare l’immagine della “signora in jeans” con quello che leggevano.

Il sottocapo deglutì. «Signora… cioè… Comandante, mi scusi. Io… non avevo visto… “Unità speciali della Marina”?» Balbettava. «Ma… fino a pochi anni fa le donne non erano previste nei reparti d’assalto. E lei è…» ebbe almeno il buon senso di fermarsi.

«Non ho fatto il percorso tradizionale degli incursori,» risposi, riprendendomi il tesserino. «Ho lavorato con le unità speciali in un altro ruolo. Per ventiquattro anni. Il mio servizio era… classificato.»

Il giovane marinaio fissava ancora il monitor. «Comandante… cosa significa “Livello 1 di accesso”?»

Il sottocapo, ritrovando un po’ di professionalità, rispose prima di me, con la voce improvvisamente bassa, piena di rispetto e un filo di timore.
«Vuol dire che è autorizzata alle operazioni più riservate. Vuol dire che ha lavorato con i reparti più delicati che abbiamo.»

Scattò sull’attenti, il busto rigido. «Comandante, mi scuso per la mancanza di rispetto. Non avevamo idea. Può procedere. Vuole… vuole che la accompagni al centro conferenze?»

«Conosco la strada,» dissi.

Attraversai il cancello. Mentre passavo, li sentii bisbigliare alle mie spalle.

«Ma come è possibile? Ventiquattro anni con le unità speciali… e noi non ne sapevamo nulla.»

«C’era scritto “classificato”. Per questo non lo sapevamo.»

Varianti di quella conversazione le avevo sentite diverse volte negli ultimi cinque anni, da quando parte del mio fascicolo era stato declassificato.
Per due decenni e mezzo ero stata la donna che non esisteva. Avevo curato operatori in mezzo agli scontri, eseguito interventi su elicotteri in volo, vissuto nell’ombra accanto ai reparti più addestrati. Ma, siccome le donne ufficialmente non combattevano, sulla carta non ero lì.

Arrivai al centro conferenze e feci il check-in. L’auditorium era già quasi pieno: più di trecento tra medici operativi e operatori speciali — per lo più giovani, in forma, quasi tutti uomini.

L’addetto alla registrazione, un civile, sembrava a disagio.
«Comandante Rinaldi? L’abbiamo segnata come relatrice principale del blocco di chirurgia traumatica di domani mattina. Ma… c’è stata un po’ di confusione. Molti partecipanti si aspettavano… beh, un chirurgo uomo. Si aspettavano un certo Comandante Marco Rinaldi, non…»

«Non una donna di cinquantatré anni che sembra non aver mai visto il fronte?» completai io, con un mezzo sorriso amaro.

Lui fece una smorfia. «Mi dispiace, Comandante. Succede spesso.»

«Lo so,» dissi. «Ne parlerò nella mia presentazione.»

Trovai un posto in fondo alla sala per la sessione del pomeriggio. Sul palco, un giovane tenente delle forze speciali stava tenendo una presentazione impeccabile sulla teoria della gestione del trauma sul campo. Perfetta, pulita, da manuale.
Ma i suoi occhi avevano ancora quello sguardo di chi non ha mai dovuto aprire un torace mentre all’esterno fischiano i colpi.

Durante la pausa, sentii un gruppetto di operatori parlare della relazione del giorno dopo.

«Avete visto chi parla domani? Una certa Comandante Chiara Rinaldi. L’ho cercata: ha più di cinquant’anni. Avrà passato la vita in ospedale. Come fa a essere la relatrice principale per la medicina in combattimento?»

«Scommetto che è stata scelta solo per fare numero,» brontolò un altro. «Dovevano mettere una donna in programma.»

«Già, io salto. Non ho intenzione di passare un’ora a sentire teoria da una che non è mai uscita dalla base.»

Non dissi niente. Presi solo un appunto mentale.
La mattina dopo sarebbe stata… interessante.

Il giorno seguente l’auditorium era pieno in ogni ordine di posti. Io ero dietro le quinte, stavolta con la divisa di servizio completa. Per molti era la prima volta che mi vedevano in uniforme.

Il mio petto era una specie di riassunto silenzioso della mia vita: una decorazione al valore, un’onorificenza per ferite riportate in servizio, varie medaglie al merito, e una fila di nastri di operazioni che non compariranno mai su nessun giornale.

Il moderatore prese il microfono.
«La nostra relatrice principale è la Comandante medico Chiara Rinaldi, con ventiquattro anni di esperienza al fianco delle unità speciali della Marina. Sedici missioni operative e più di duecento interventi chirurgici sul campo.»

Salii sul palco. Vidi l’onda di confusione attraversare la sala: lo stesso gruppo di ragazzi che il giorno prima mi aveva liquidata con una scrollata di spalle. Quella era la “quota rosa”, secondo loro.

Mi avvicinai al leggio, guardai quel mare di volti scettici e presi fiato.

«Buongiorno,» iniziai, con il tono fermo che avevo imparato in mezzo al caos.

«So che alcuni di voi sono sorpresi di vedermi. Vi aspettavate il Comandante Marco Rinaldi. Un chirurgo uomo. E invece avete me… Comandante Chiara Rinaldi. Una donna di cinquantatré anni che, come ho sentito dire ieri, “non sembra aver mai visto il fronte”.»

La sala diventò di colpo muta.

Parte 2

Lasciai che quel silenzio rimanesse lì, pesante, quasi imbarazzante.
Vidi il giovane tenente che aveva parlato di “scelta per fare numero” scivolare più in basso sulla sedia, in terza fila.

«Sarò diretta,» ripresi, la voce tagliente e chiara. «Il motivo per cui, ai vostri occhi, non “sembro” una che ha visto il fronte è semplice: per ventiquattro anni, la mia esistenza è stata classificata. Per le regole dell’epoca, le donne non risultavano nei reparti d’assalto.
Ma alcune di noi… c’erano già. C’eravamo in ruoli di cui c’era bisogno, a prescindere da quello che diceva il regolamento.»

Cliccai per far partire la prima diapositiva.

L’auditorium emise un mormorio trattenuto.
La foto era granulosa, illuminata solo dal fascio di una lampada frontale. Io, venticinque anni più giovane, la faccia sporca di terra e di sangue secco. Indossavo mimetica da deserto, i guanti sporchi mentre ero piegata su un torace aperto, circondata da pochi strumenti chirurgici appoggiati su una coperta.

«Questa sono io. Zona operativa, 2004,» dissi, con la voce che si ammorbidiva mentre il ricordo mi risaliva addosso. «Ero alla ventiseiesima ora di quello che sarebbe diventato un intervento di settantadue ore. L’operatore sul tavolo aveva una ferita al torace, un polmone collassato, emorragie interne importanti. Eravamo in una posizione avanzata, bloccati dal maltempo. Niente evacuazione. Nessun ospedale. Solo me, il mio kit medico, e tre giorni d’inferno. L’ho tenuto in vita finché non è stato possibile trasferirlo.»

Clic. Seconda diapositiva.
Sempre io, questa volta sulla trentina. Ero in assetto completo — giubbotto, casco, arma a tracolla — accanto a una squadra di operatori.

«Qui siamo nel 2008. Ero aggregata a un’unità per una missione lunga sei mesi. Ufficialmente? Impossibile. Le donne non risultavano in quei reparti. Ufficiosamente? Quando una squadra ha bisogno di un chirurgo traumatologo per operazioni ad alto rischio, all’improvviso il genere conta poco. Conta la competenza.»

Clic. Terza foto.
Un semplice telo mimetico con il mio kit chirurgico da campo steso sopra: una fila di strumenti ordinati.

«Questo è il mio kit da missione. Settantatré strumenti. Peso totale: poco più di otto chili. Con questo ho eseguito oltre duecento interventi. Dall’estrazione di schegge, alle toracotomie d’urgenza, fino alle amputazioni di salvataggio… sempre in condizioni in cui il manuale direbbe: “portare il paziente in sala operatoria”. Sala che, vi assicuro, non c’era.»

Posai lo sguardo sul giovane tenente che, il giorno prima, aveva detto che non avrebbe perso tempo con la mia lezione. Ora era seduto dritto, la bocca leggermente aperta.

«Alcuni di voi hanno pensato che fossi stata scelta per fare statistica,» dissi, senza cattiveria. «Che avessi passato la carriera in un reparto pulito, fra corsi e teoria.
Mettiamo le cose in chiaro: ho eseguito più interventi in condizioni operative di quanti la maggior parte dei chirurghi militari vedrà in tutta la vita. Ho lavorato con questi reparti da più tempo di quanto alcuni di voi abbiano anni.»

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