La Vigilia di Natale mi sono presentata alla porta di mio figlio e lui mi ha detto solo: “Mamma, sei in anticipo.”
La mattina dopo avevo 25 chiamate perse.
Per venticinque anni, le mie mani non sono mai state veramente mie. Hanno pulito nasi che colavano, hanno tenuto pezze bagnate su fronti calde di febbre, hanno preparato panini al volo, hanno lavato le scale dei condomini degli altri affinché a fine mese ci fossero i soldi per le lezioni di musica o per l’università. Adesso, a sessantotto anni, tremano un po’.
Mi chiamo Elisabetta. Sono stata infermiera per una vita intera. Quando mio marito, Pietro, si è accasciato in salotto a cinquant’anni per un infarto, mi sono ritrovata con due figli, una villetta a schiera da pagare nella provincia nebbiosa di Bergamo, e un futuro che era sparito in un attimo. Promisi a Marco e Giulia che avrebbero avuto la vita che il papà sognava per loro. Anche se significava che io non ne avrei più avuta una per me.
Ho fatto doppi turni in ospedale, puzzavo di disinfettante e caffè stantio, tornavo a casa in bicicletta col buio. Ho imparato su YouTube come stuccare le pareti e riparare la lavatrice per risparmiare sull’idraulico. E ho tenuto duro.
Marco ha studiato alla Bocconi, ha sposato Chiara, ha avuto due figli meravigliosi. Vivono in un bel complesso residenziale nell’hinterland di Milano, di quelli con il cancello automatico e il prato perfetto. Giulia si è trasferita a Roma, lavora in un’agenzia di comunicazione, sempre di corsa, sempre “in riunione”, sempre “ti richiamo dopo, mamma”.
Dicevo a mia sorella: “Ho fatto un buon lavoro. Sono sistemati.” Quando per il mio compleanno ricevevo solo un messaggio vocale frettoloso alle dieci di sera, mi dicevo: “Sono impegnati, poverini. Meglio così, vuol dire che hanno una vita piena.” Ma ultimamente mi sentivo come un abbonamento che nessuno disdice: sono lì, in sottofondo, pagata col sacrificio, ma ignorata.
Quest’anno ho deciso di non aspettare un invito che forse non sarebbe mai arrivato. Ai primi di dicembre ho chiamato Marco. “Tesoro, pensavo di venire da voi per la Vigilia, se non disturbo.”
Silenzio. Poi un colpo di tosse imbarazzato. “Ehm… fammi sentire Chiara. Sai com’è, i bambini, il casino…” Sapevo.
Una settimana dopo, nessuna voce, solo un messaggio su WhatsApp: “Per la Vigilia va bene. Caffè alle 15:00, poi scartiamo i regali. La stanza degli ospiti è libera.” Ho riletto quel “La stanza degli ospiti è libera” venti volte. Sembrava un permesso di soggiorno per rientrare nella loro vita.
Il 24 dicembre ho preso il treno regionale per Milano. Indossavo il mio cappotto verde bottiglia, quello “buono”. Per Leo avevo un kit di esperimenti, per Sofia dei pastelli professionali. Immaginavo il profumo del panettone artigianale, le luci dell’albero, il calore della famiglia.
Dalla stazione ho preso un taxi fino al loro quartiere. Tutto era silenzioso, elegante. Ghirlande vere alle porte, luci bianche minimaliste. Attraverso la vetrata del salotto vedevo l’albero illuminato.
Da dentro arrivava una risata di bambino. Quel suono che ti scalda lo stomaco. Ho guardato l’orologio. 14:47. “Un po’ in anticipo,” ho pensato. “Ma che importa? È Natale.”
Ho suonato il citofono. Ho visto un’ombra muoversi. La porta blindata si è aperta. Un’ondata di calore, profumo di arancia e cannella. “Mamma,” ha detto Marco. La sua voce non era arrabbiata. Era… seccata. Come quando il corriere arriva mentre stai pranzando.
Ho sorriso: “Il treno non ha fatto ritardo, incredibile vero? Non vedevo l’ora di abbracciarvi. Buon Natale, amore mio.”
Dietro di lui sentivo voci, Chiara che rideva al telefono, una canzone di Michael Bublé in sottofondo. Mi sono sporta un po’ per vedere i nipoti, un cenno, un sorriso.
Marco non si è spostato. È rimasto lì, sulla soglia, rigido come una guardia svizzera. “Mamma, avevamo detto alle 15:00.” Ha guardato il suo Apple Watch. “Non siamo ancora pronti. Chiara sta finendo di preparare la tavola per stasera, c’è confusione.”
Ho aspettato l’abbraccio. Non è arrivato. Ho aspettato il: “Vabbè, entra, fuori si gela!” Non è arrivato. I regali nelle mie mani sono diventati pesanti come macigni. Il freddo umido della pianura mi entrava nelle ossa.
Ho guardato quel ragazzo, quello a cui avevo curato le ginocchia sbucciate e preparato tazze di latte caldo nelle notti di studio, e ho capito: non ero una nonna, non ero una madre. Ero uno “slot” orario. Ero un impegno in agenda. E avevo sbagliato orario.
Ho mormorato qualcosa. Forse: “Certo. Scusa. Io… faccio un giro e torno.” Mi sono voltata. Le ruote del mio trolley facevano un rumore fastidioso sul vialetto di ghiaia. La porta si è chiusa alle mie spalle con un click secco, tagliando fuori la musica e la luce.
Non sono tornata alle 15:00. Sono tornata verso la stazione. Ho trovato un hotel di quelli tristi, vicino alla tangenziale, con la moquette macchiata. Non mi sono sdraiata. Non mi sono tolta il cappotto verde. Mi sono seduta sul bordo del letto e ho spento il cellulare.
La mattina dopo l’ho riacceso. 25 chiamate perse. Marco. Giulia. Mia sorella. Dieci messaggi di Giulia: “Mamma, dove sei finita? Marco dice che te ne sei andata! Ci stai facendo preoccupare!”
Non erano preoccupati perché io mancavo a loro. Erano preoccupati perché avevo rovinato il programma. Avevo creato un “disagio”. Avevo violato la regola non scritta: le madri devono essere disponibili, puntuali e invisibili finché non servono. L’amore di una madre è incondizionato. Quello dei figli, da adulti, è pieno di clausole: orari, impegni, “i miei spazi”.
Mi sono seduta alla finestra. Fuori passavano i camion sulla statale. Nella sala colazioni c’era odore di caffè bruciato. Ho pensato a tutte le Vigile passate in corsia all’ospedale, a tenere la mano a chi moriva solo. Ho pensato a Pietro.
Verso le nove ho scritto a Giulia: “Sto bene.” Poi a Marco: “Non volevo disturbare i vostri piani. Buon Natale.”
Le risposte sono arrivate subito, piene di giustificazioni aziendali: “Ma mamma, non disturbavi! Eravamo solo stressati per i preparativi. Lo sai come siamo fatti, ci piace seguire la tabella di marcia.”
La tabella di marcia. Ho pensato ai miei anni senza tabelle di marcia: quando i soldi finivano il 20 del mese, quando correvo tra il lavoro e la scuola. E ho capito: la tabella di marcia ero io. Io ero quella che teneva in piedi tutto. Adesso ero solo un imprevisto.
Ho fatto la valigia. Alla reception la ragazza mi ha detto “Buone Feste”. Ho annuito. Il 25 sera ho chiamato mia sorella. “Com’è andata?” mi ha chiesto. Le ho raccontato l’essenziale.
Lei ha sospirato, con quella frase che usiamo per perdonare i maschi di famiglia: “Eh, lo sai com’è Marco. È fatto così, è tutto preso dal lavoro e dalla famiglia.” Preso. Ho riattaccato e ho scritto una lettera. Solo per me. Per mettere ordine nel cuore.
Cari figli, Vi ho resi forti per una vita in cui non aveste più bisogno di me. Era il mio obiettivo, ed è diventata la mia condanna. Se la sera di Natale sentite che sono “troppo in anticipo”, forse significa che nella vostra vita sono arrivata “troppo tardi”. Non sono arrabbiata. Non sono offesa. Sono solo stanca. Mamma.
Ho piegato il foglio. Ho messo su l’acqua per il tè, ho tagliato una fetta di pandoro che avevo comprato in stazione, ho acceso una candela. Ho ripreso il telefono. Questa volta non l’ho spento. L’ho solo appoggiato lontano, sul comò.
A tutti i figli che stanno costruendo le loro vite perfette: La carriera è importante. La vostra nuova famiglia è sacra.
Ma non dimenticate le mani che vi hanno sostenuto quando non sapevate camminare. Non trasformate vostra madre in un appuntamento su Google Calendar. Non chiedetele solo se l’orario “le va bene”, ma aprite quella maledetta porta quando lei è lì fuori, anche se manca un quarto d’ora, anche se non è tutto perfetto.
Perché un giorno chiamerete quel numero, e il telefono squillerà a vuoto per sempre.
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