Non pensavo che quella porta chiusa potesse fare rumore per giorni. E invece sì: continuava a sbattermi in testa anche quando la casa era silenziosa, anche quando l’acqua del tè bolliva piano e la candela finiva di consumarsi come un’ultima scusa.
La notte tra il 25 e il 26 dormii a tratti, con il cappotto appoggiato sulla sedia e il telefono lontano sul comò, come si mette lontano qualcosa che può ferirti quando sei già fragile. Ogni tanto lo schermo si accendeva da solo, un lampo, una vibrazione breve, poi di nuovo buio.
Alle sei del mattino, la nebbia di Bergamo era una parete. Io guardavo fuori e mi sembrava di stare dentro una fotografia vecchia, sbiadita ai bordi, con la mia faccia al centro che non sapeva più bene che espressione fare.
Alle otto e quarantadue il telefono ha squillato davvero, non un messaggio, non una notifica. Una chiamata. Ho fissato il nome sullo schermo come se fosse un esame: **Marco**.
Ho lasciato che squillasse tre volte, quattro. Poi ho risposto, con quella voce calma che usavo in ospedale quando arrivava un parente agitato e io dovevo essere la parte stabile del mondo.
«Pronto.»
Dall’altra parte non c’era la sua voce pronta, sicura, “organizzata”. C’era un respiro corto. Un uomo che non sapeva da che parte mettere la colpa.
«Mamma…» disse. «Dove sei?»
«A casa.»
Una pausa, un colpo secco come se avesse appoggiato la mano sul tavolo. «A casa… a Bergamo?»
«Sì.»
Lo sentii deglutire. «Perché non hai risposto ieri sera? Ti abbiamo… ti abbiamo cercata ovunque.»
Ecco. La frase “ti abbiamo cercata ovunque” era bella, sulla carta. Ma io, con la mia stanchezza addosso, la sentivo anche con un’ombra sotto, come certe promesse che ti fanno quando hanno paura e vogliono solo che tu smetta di tremare.
«Avevo bisogno di silenzio, Marco.»
«Io…» si interruppe. «Mamma, io ho sbagliato. Sulla porta… io ero nervoso, c’era confusione, i bambini, Chiara che… Non è una giustificazione. È solo la verità: mi sono comportato malissimo.»
Sentire mio figlio dirlo mi fece un effetto strano. Non mi fece vincere. Non mi fece godere. Mi fece solo venire voglia di sedermi.
«Ieri,» continuò, «quando sono entrato e ho chiuso, ho visto Leo. Aveva già preso il cappotto, era pronto. Mi ha chiesto: “La nonna dov’è?” E io ho detto una stupidaggine, ho detto: “È uscita un attimo.” Poi è passata mezz’ora. Poi un’ora. E lì… lì ho sentito una cosa nello stomaco. Non era rabbia. Era paura.»
Io guardavo la mia cucina. La tazza sbeccata, il pandoro incartato male, il lavello asciutto. La vita vera, quella senza luci perfette.
«Paura di cosa?» chiesi.
«Di averti persa davvero.» La voce gli tremò. «Non per una sera. Perché mi sono accorto che ti davo per scontata. E certe cose, quando le dai per scontate, rischi di accorgertene solo troppo tardi.»
Sentii un nodo salire, ma non volevo piangere al telefono. Non volevo regalargli quella scena facile. Avevo pianto abbastanza in corsia, per gente che non avrebbe più sentito la mia mano.
«Cosa vuoi, Marco?» dissi piano. «Dimmi cosa vuoi adesso.»
«Voglio venire da te. Oggi. Subito. Se ci lasci… se mi lasci venire.»
Mi strinsi la mano destra con la sinistra, per fermare quel tremore che ormai mi faceva arrabbiare più della vecchiaia.
«Da sola?» chiesi.
«No.» Inspirò. «Con Chiara. E con i bambini. Anche Giulia sta arrivando da Roma, sta… sta già in viaggio. Mamma, noi… noi abbiamo fatto una cosa brutta. E io non voglio che tu sia quella che deve sempre far finta di niente.»
Rimasi in silenzio così a lungo che lui disse: «Mamma?»
«Vieni,» risposi. «Ma ascoltami bene: non venite per sistemare la coscienza. Non venite per rimettere a posto il programma. Venite per stare. Anche se vi fa male.»
«Sì,» disse. E nella sua voce c’era qualcosa di piccolo, finalmente. «Sì, mamma.»
Chiusi la chiamata e restai ferma in piedi al centro della cucina. Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro, come se aspettassi un’altra cattiva notizia. Poi mi venne da ridere, una risata breve, stupida, perché mi resi conto che avevo appena fatto una cosa che non facevo quasi mai: avevo detto le condizioni.
Mi misi a riordinare senza fretta, non per loro, ma per me. Non volevo essere “pronta”. Volevo essere vera. Lasciai la tazza sbeccata dov’era.
Alle undici e diciassette suonò il campanello.
Mi fermai. Il cuore fece un salto come se avessi vent’anni e qualcuno mi cercasse per dirmi che la vita stava cambiando.
Suonò di nuovo, ma questa volta non insistente. Educato. Quasi timido.
Andai alla porta e appoggiai la mano sulla maniglia. Quella mano che aveva fatto mille cose per gli altri e pochissime per sé.
Aprii.
Sul pianerottolo c’era Marco, con il cappotto aperto e gli occhi rossi. Accanto a lui Chiara, pallida, le labbra strette come chi ha ripetuto cento volte una frase in testa. E tra loro, Leo e Sofia, con il naso già arrossato dal freddo e gli occhi pieni di una felicità che non sapeva niente di adulti.
Leo fece un passo avanti e mi abbracciò senza chiedere permesso. Un abbraccio forte, di quelli che ti prendono la pancia e ti tirano dentro.
«Nonna!» disse. «Pensavo che eri sparita.»
Io chiusi gli occhi un secondo. La parola “sparita” mi fece male e bene insieme.
«Sono qui,» gli sussurrai. «Sono qui.»
Sofia mi porse un foglietto stropicciato. Era un disegno: una casa con una porta enorme, tutta colorata, e quattro persone con le mani grandi.
«È per te,» disse. «La porta deve essere grande, così ci entra tutto.»
Marco fece un passo, ma non entrò. Restò fermo, come se quella soglia fosse diventata improvvisamente sacra.
«Mamma,» disse. «Siamo… siamo in anticipo.»
Quella frase. La stessa. Ma detta da lui sembrava diversa, come se avesse capito finalmente cosa può fare a una persona.
Io lo guardai dritto, senza cattiveria.
«Lo so. E stavolta va bene così. Entrate.»
Chiara mi fissò come se non avesse diritto a passare. Poi abbassò gli occhi e disse: «Elisabetta… mi dispiace. Io ieri… io ridevo al telefono, e tu eri lì fuori. E io…» La voce le si spezzò. «Io ho fatto finta che non fosse grave. Come se fosse normale. E invece no, non dovrebbe essere normale.»
Mi spostai per farli entrare. Il caldo della casa li avvolse subito, quello caldo vero di termosifoni vecchi e cucina semplice, non profumi studiati.
Marco posò una busta sul tavolo. «Sono… i regali,» disse. «Quelli che avevi portato. Li hai lasciati al taxi. Abbiamo chiamato, siamo corsi… li abbiamo recuperati. Non perché… non per i regali. Ma perché mi sembrava di recuperare un pezzo di te.»
«E questa?» chiesi, vedendo una busta più grande, rigida.
Lui si passò una mano sul viso. «È… la tua lettera.»
Mi gelai. «Quale lettera?»
Chiara si morse il labbro. «Marco ieri notte è passato da tua sorella. Lei si è spaventata davvero, e con le chiavi di emergenza è entrata solo per controllare che stessi bene. Marco è rimasto fuori, sul pianerottolo, a fissare il tavolo come se fosse un altare. E lì… c’era quel foglio piegato. “Cari figli”.»
Sentii il sangue salire alle guance come una vergogna. Era una cosa mia. Un ordine nel cuore. Non volevo che la leggessero come si legge una multa.
Marco alzò la busta con due dita, come un oggetto fragile. «Non l’abbiamo aperta, mamma. Te lo giuro. Ma… io ho visto l’inizio. E ho capito che ti avevo portata a scrivere un addio dentro casa tua, mentre io… mentre io stavo contando i minuti sul mio telefono.»
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