Sono tornata per il pranzo di Natale e ho trovato mio marito sparito, il patrigno pronto a cambiare tutto

Tornai a casa per il pranzo di Natale.
La casa era vuota, silenziosa, fredda. C’era solo il patrigno di mio marito seduto su una vecchia poltrona a dondolo. Sul tavolo d’ingresso, un foglio piegato con la sua grafia.

Ciao Giada,
sono partito per una crociera nel Mediterraneo con Chiara.
La mamma ha deciso di venire, aveva bisogno di staccare.
Tu resti qui a occuparti di Vittorio, ha bisogno di te.
Torno lunedì.
— Riccardo.

Il foglio tremava fra le mie dita mentre sentivo il sangue scendere dai polsi, come se qualcuno avesse tirato via il tappo alla mia vita.
Lo lessi due volte, convinta che ci fosse un errore, uno scherzo, una telecamera nascosta.

Il foglio scivolò sul piano della cucina. Le dita mi erano diventate di ghiaccio.

«Non torna prima di lunedì, vero?»
La voce roca alle mie spalle mi fece sobbalzare.

Mi girai. Vittorio mi guardava dalla porta, appoggiato pesantemente al bastone, ma con gli occhi troppo lucidi e svegli per l’“anziano rincitrullito” che Riccardo mi aveva descritto.

«No» riuscii appena a dire. «Non torna nessuno.»

«Sono andati tutti in crociera.»
Vittorio annuì lentamente, come se se lo aspettasse da tempo.
«Ti hanno lasciata con il lavoro sporco. Classico Riccardo.»

Ero arrivata a casa della famiglia Rossi da mezz’ora, la macchina piena di pacchetti, vino e ingredienti per il pranzo di Natale.
La casa silenziosa avrebbe dovuto insospettirmi: niente profumo di arrosto in forno, niente televisione con la partita, niente risate di parenti. Solo un freddo umido, i termosifoni tiepidi, e il patrigno di mio marito seduto da solo a dondolare, quegli occhi azzurri che mi scrutavano come se vedessero dietro la fronte.

«Non capisco» dissi, lasciandomi cadere su una sedia in cucina. «Stavamo organizzando questo Natale da mesi. Sua madre doveva ospitare tutti. Dovevano venire i parenti da fuori.»

Presi il telefono e chiamai Riccardo per la quarta volta.
Segreteria. Sempre segreteria.

Vittorio zoppicò fino al frigorifero e tirò fuori una brocca d’acqua. «È tutta la settimana che è così. Una tomba. Sono partiti martedì mattina.»
Si versò un bicchiere con le mani che tremavano appena. «Non hanno nemmeno riempito il frigorifero. Spero tu abbia portato qualcosa.»

Io avevo portato giusto gli “extra”: ingredienti per il mio strudel di mele, un paio di contorni, qualche dolce. Erano pensati come contributo a un pranzo di famiglia, non come provviste per due abbandonati a Natale.

Il telefono vibrò. Per un istante il cuore mi balzò in gola.
Riccardo, pensai.

Era una notifica di Instagram.

La sorella di Riccardo lo aveva taggato in una foto. Con le dita già sudate aprii l’app.

Mi tolse il respiro.

Riccardo era sul ponte di una nave da crociera, il mare alle spalle, un bicchiere di bollicine in mano. L’altro braccio stretto intorno a una giovane bionda che conoscevo bene: Chiara, la collega d’ufficio di cui parlava sempre più spesso negli ultimi mesi.

Sorridevano verso la fotocamera come una coppia in luna di miele.

La didascalia diceva:
«#NuoviInizi #MediterraneanCruise con @RiccardoRossi e famiglia ❤️».

Famiglia.
La parola mi bruciò come sale su una ferita aperta.

Scorrii le altre foto.
C’era la madre di Riccardo, Elena, con un cocktail in mano, abbronzata, rilassata. Lontanissima dall’immagine della donna “stanca per l’assistenza a Vittorio” che mi aveva raccontato al telefono.
Un’altra foto mostrava Riccardo e Chiara a una cena romantica, luci soffuse, calici alzati.

Il post era di due giorni prima.
Quindi la crociera era stata programmata da tempo. Mentre io facevo la lista della spesa, prendevo permessi dal lavoro, preparavo regali per i “nostri” Natali di famiglia.

«Hai trovato qualcosa di interessante?» chiese Vittorio, studiando la mia faccia.

Gli girai lo schermo. «Sono in crociera con Chiara. Del suo ufficio. Quella che “è solo una collega”.» La voce mi si spezzò. «Lo hanno organizzato mentre io compravo i biscotti per i nipoti e mi segnavo le tue medicine su un foglietto.»

Vittorio annuì cupo. «Chiara c’è da almeno tre mesi. Ha telefonato qui più volte chiedendo di lui. Voce carina, risata tremenda.»

Lo fissai. «Lo sapevi.»

«Io so molte cose che loro credono di nascondermi.»
Si toccò la tempia con un dito nodoso. «Qui dentro funziona ancora bene, nonostante ciò che racconta Riccardo.»

Il pensiero corse al conto in banca. Con il cuore che batteva forte aprii l’app.

Tre giorni prima: prelievo 5.200 euro.
Quasi tutti i nostri risparmi. Soldi messi da parte per l’anticipo di una casa. La casa che Riccardo mi aveva promesso di cercare “subito dopo le feste”.

«Ha preso i nostri risparmi» sussurrai, mostrando il telefono a Vittorio. «Tutti.»

Lui non sembrò sorpreso. «A me lo fanno da anni. Un po’ alla volta. “Per la tua assistenza, Vittorio”, dicono.» Indicò la stanza fredda. «Intanto abbassano il riscaldamento per risparmiare, le medicine arrivano in ritardo, e Elena si compra un’altra borsa costosa.»

Mi venne la nausea.
Non era solo un Natale rovinato. Non era solo un tradimento.
Era abbandono calcolato. Di me, di lui, di ogni responsabilità.

Il telefono squillò. Era la mia migliore amica, Sara, che mi chiamava per farmi gli auguri. Spensi la chiamata. Non avevo la forza di spiegare quell’umiliazione a nessuno.

«C’è della minestra avanzata» propose Vittorio. «Non è proprio un pranzo di festa, ma riempie lo stomaco.»

Guardai la cucina: piatti sporchi nel lavello, contenitori di cibo d’asporto vuoti, la pattumiera piena. Non avevano nemmeno pulito prima di partire.

Qualcosa dentro di me si indurì.

«No» dissi, alzandomi. «Meritiamo di meglio di una minestra riscaldata.»

Presi il cappotto e la borsa. «Vado al supermercato. Se siamo fortunati trovo ancora del tacchino, delle patate, un po’ di verdure. Oggi, almeno noi due, avremo un pranzo vero.»

Vittorio mi guardò sorpreso, poi compiaciuto. «È da mesi che non mangio un pasto cucinato in casa. Riccardo porta solo cibo da asporto. Quando si degna di passare.»

Al supermercato, la mente era un vortice.
Da quanto tempo Riccardo pensava di lasciarmi?
I nostri sei anni insieme erano stati solo una convenienza momentanea? Un porto comodo finché non trovava di meglio?

Mettevo nel carrello un piccolo petto di tacchino, patate, fagiolini, pane. Non ricordo nemmeno che percorso ho fatto fra gli scaffali.

Quando tornai, Vittorio aveva sgomberato il piano della cucina e si era seduto al tavolo con una pila di fogli davanti.

«Che cos’è tutta questa roba?» chiesi, appoggiando le buste.

«Prove» rispose lui, con lo sguardo che si fece improvvisamente duro. «Estratti conto, cartelle cliniche, episodi annotati. Tengo traccia da mesi.»

Spinse verso di me una cartellina. «Riccardo ed Elena pensano che io sia solo un peso che aspetta di morire. Non sanno che li osservo mentre si prendono i miei soldi lasciandomi il minimo indispensabile.»

Sfogliai i fogli. C’erano appunti scritti a mano, con date, orari, importi. Estratti conto con bonifici “strani”, annotazioni su visite mediche saltate, ricette mai ritirate.

«Perché me lo fai vedere?» chiesi, a disagio per quella precisione ostinata.

Vittorio si sporse in avanti, sembrò quasi ringiovanire di dieci anni. «Perché anche tu sei stata tradita, Giada. E perché io non ho molto tempo.»

Prese una cartella clinica e la picchiettò con le dita. «Cancro al pancreas. Fase avanzata. Tre mesi, se va bene.»

Mi sedetti di colpo. «Mi dispiace, Vittorio.»

Scosse la mano. «Non serve la pietà. Serve la lucidità.»
Mi fissò con un’intensità che non gli avevo ancora visto. «Loro pensano di averti lasciato un peso. In realtà ci hanno fatto un regalo.»

«Un regalo?» ripetei, incredula.

«Un’opportunità.»
Le labbra sottili si piegarono in un mezzo sorriso. «Per fare giustizia.»

Prese una busta chiusa e la fece scivolare verso di me. «Qui dentro c’è il mio vero testamento, e i documenti del fondo che ho creato anni fa. Non quello che credono loro.»

Non toccai subito la busta. «Non capisco.»

«Te lo spiego con calma.»
Si appoggiò allo schienale, stanco ma deciso. «Se mi aiuterai a documentare la loro negligenza, a sistemare le mie ultime volontà e a preparare quello che verrà dopo, mi assicurerò che tu non rimanga senza niente. Loro perderanno tutto ciò che danno già per scontato.»

Lo guardai. Un uomo che conoscevo a malapena, e con cui all’improvviso condividevo una ferita profonda. Eravamo stati buttati nello stesso sacco della “scomodità”: lui troppo vecchio, io troppo ingombrante.

Fuori, il cielo di dicembre si faceva scuro sopra un vialetto deserto, dove avrebbe dovuto esserci una fila di auto di parenti.
Dentro, al tavolo della cucina, stava nascendo un’alleanza inaspettata.

«Sì» dissi alla fine.
La mia stessa voce mi stupì per quanto era ferma. «Cominciamo.»


Dopo il nostro patto, Vittorio si lasciò andare sulla sedia, improvvisamente più curvo. L’euforia della decisione gli aveva dato energia per un attimo, ma ora la stanchezza gli si vedeva in faccia.

«Dovresti riposare» gli dissi, notando il pallore che superava persino le rughe. «Io preparo il pranzo, poi parliamo con calma.»

Lui scosse la testa. «Prima devi vedere alcune cose. Così capisci con chi abbiamo a che fare.»

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