Sono tornata per il pranzo di Natale e ho trovato mio marito sparito, il patrigno pronto a cambiare tutto

Mi accompagnò lentamente in una stanza che, un tempo, doveva essere stato uno studio: scaffali pieni di libri, una scrivania, una brandina pieghevole in un angolo. Invece del letto ospedaliero che avevano messo per lui in un’altra stanza, il materasso semplice mostrava i segni di chi ci dormiva davvero.

«Quel letto lì non lo sopporto» borbottò indicando il lettino medico, pieno di sbarre. «Mi fa sentire già in obitorio.»

Da un cassetto chiuso a chiave tirò fuori una cartella spessa con scritto “Medico”. Me la mise in mano senza giri di parole.

«Cancro al pancreas» disse piano, mentre io aprivo le pagine. «Quarto stadio. Diagnosi di tre mesi fa.»

Lessi le prime righe del referto: termini tecnici, percentuali, parole fredde come lame. Scansioni, visite, suggerimenti di trattamenti palliativi.

«I medici parlano di due mesi» aggiunse. «Forse meno. L’ultima TAC non è stata incoraggiante.»

Alzai la testa di scatto. «Riccardo lo sa?»

«Oh sì» rispose amaro. «Erano tutti presenti alla visita. Tua suocera è uscita dallo studio dicendo che “doveva staccare un po’”, che a sessantasei anni “non ce la faceva più a fare l’infermiera”.»

Una fitta allo stomaco. «Sono partiti in crociera sapendo che ti restavano pochi mesi?»

«Poche settimane, più realistico.»
Si sedette sul bordo del letto. «Ma non è nemmeno la cosa peggiore. Guarda l’elenco delle medicine.»

Sfogliai fino alle prescrizioni: antidolorifici forti, enzimi per la digestione, farmaci contro la nausea.

«Controlla in bagno» mi disse. «Confronta quello che c’è lì con quello che dovrebbe esserci.»

Nel piccolo bagno trovai un mucchio disordinato di flaconi. Guardando le date sulle etichette e confrontandole con le prescrizioni, l’orrore prese forma: alcuni antidolorifici dovevano già essere quasi finiti, ma le confezioni erano quasi piene; gli enzimi, costosi, erano consumati a metà rispetto a quanto prescritto.

«Dimezzano le dosi» confermò Vittorio quando tornai. «Una pastiglia invece di due. Mezzo antidolorifico invece di uno. E le visite specialistiche? “Troppo care”, ha detto Elena.»

Le mani mi tremavano mentre rimettevo a posto i fogli. «Questo non è solo “trascuratezza”. È abuso.»

«È quello che succede quando cominciano a vederti come un ostacolo invece che come una persona» disse lui.
Tirò fuori da sotto il cuscino un quaderno a righe. «Qui ho segnato tutto. Orari delle medicine saltate o dimezzate. Appuntamenti disdetti. Prelievi dal conto per “materiale sanitario” mai arrivato.»

Le pagine erano fitte di date, orari, descrizioni precise. Nonostante la malattia, la sua mente era una lama.

«Adesso mangiamo qualcosa» dissi, con il bisogno disperato di fare un gesto normale. «Poi pensiamo al resto. Devi fare almeno un Natale decente.»

In cucina, frugando fra quello che avevo portato e quel poco che c’era, riuscii a mettere insieme un pranzo dignitoso: petto di tacchino in forno, patate, fagiolini, un po’ di insalata. Non era il pranzo abbondante che avevo immaginato, ma era caldo e profumava di casa.

Mentre mangiavamo al tavolo piccolo, Vittorio mi osservò a lungo.

«Raccontami del tuo matrimonio» disse all’improvviso. «Quando hai iniziato a capire che Riccardo non era quello che sembrava?»

La domanda era diretta, come una puntura in un punto già dolorante. Spostai il cibo nel piatto, cercando le parole.

«Piano piano» ammisi. «All’inizio era presente, attento. Mi incoraggiava con il mio lavoro di grafica. Avevo uno studio in affitto, clienti miei, amiche con cui uscivo.»

Sospirai. «Dopo il matrimonio ha proposto di chiudere lo studio per lavorare da casa: “così risparmiamo l’affitto”, diceva. Sembrava sensato.»

All’inizio era quasi piacevole. Poi cominciarono i problemi al computer, il software che “non andava”, le connessioni che cadevano.
Le uscite con le amiche diventavano motivo di discussione. «Sei stanca, resta a casa, guardiamo un film.»
O si offriva di accompagnarmi e poi brontolava tutto il tempo.

«Controllava il telefono “per cercare un numero”» continuai. «Faceva commenti sui clienti: quelli che “non pagano abbastanza”, quelli “che ti sfruttano”. Lentamente ha tagliato tutti i miei appoggi fuori da lui.»

Vittorio annuì piano. «Strategia di isolamento. Molto classica.»

«Poi è morto mio padre, l’anno scorso» dissi, sentendo tornare quel lutto che non avevo mai elaborato bene. «Mi ha lasciato trentamila euro. Riccardo ha insistito per metterli sul conto comune. “Sono per la nostra casa”, diceva. Per la casa che ora non esiste più.»

«I soldi che ha appena speso per la crociera con un’altra» riassunse Vittorio, con la calma crudele dei fatti.

Appoggiai la forchetta. Non avevo più fame.

«Persone come Riccardo ed Elena vedono le relazioni come conti economici» disse Vittorio. «Io l’ho capito tardi. Ero già vedovo quando l’ho incontrata. Avevo il mio piccolo patrimonio, un buon lavoro in banca, una vita tranquilla. Lei era affascinante, brillante, e Riccardo era un ragazzino che sembrava aver bisogno di una figura paterna.»

Si passò una mano sul volto. «Dopo il matrimonio, tutto cambiato. Spese sempre più alte, “per vivere come meritiamo”. Quando ho provato a mettere limiti, sono diventato il cattivo. Avaro, tirchio, “non abbastanza impegnato nella famiglia”.»

Mi uscì quasi un sorriso amaro. «Suona familiare.»


Dopo pranzo, Vittorio mi fece cenno di seguirlo nel suo vecchio studio.
La madre aveva provato a trasformarlo in una specie di “stanza della meditazione”, con candele e cuscini, ma la scrivania era rimasta. Sul muro, un quadro paesaggistico senza valore.

«Aiutami con questo» disse.

Togliemmo il quadro. Dietro non c’era una cassaforte, come mi aspettavo, ma un pannello del muro allentato. Vittorio lo rimosse con gesti sicuri e tirò fuori una cartellina di plastica rigida, ben chiusa.

«Questi sono i miei veri beni» spiegò, posando la cartellina sulla scrivania e aprendola con cura. «Investimenti di cui Elena non sa nulla. Un appartamento in montagna. Alcuni conti all’estero, vecchi di quando lavoravo ancora in banca. Qualcosa ho messo anche in un fondo che non appare da nessuna parte.»

Guardavo i fogli sbalordita. Non erano cifre astronomiche da film, ma nemmeno bruscolini: abbastanza da cambiare la vita di qualcuno.

«Riccardo e sua madre da anni prendono dai conti che conoscono» continuò Vittorio. «Ma questo, lo vedi? Questo non lo possono toccare.»

Indicò una visura catastale. «Questa casa, per esempio. Non è intestata né a me né a Elena. È di una piccola società che controllo io. Loro sono convinti che, quando muoio, gli resti automaticamente. Si sbagliano.»

«Riccardo non sa niente?» chiesi.

«Nemmeno un centesimo» rispose. «Neppure il mio avvocato conosce tutti i dettagli.»
Alzò lo sguardo su di me. Nei suoi occhi c’era una determinazione nuova. «Sapevo da tempo chi è davvero Riccardo. È come sua madre: sorrisi davanti, mani nelle tasche degli altri dietro. Non avrei mai pensato che avrebbe fatto lo stesso con la propria moglie.»

Restammo in silenzio per alcuni secondi.
Sentivo il rumore lontano di una macchina che passava per la via, il frigo che partiva, il ticchettio dell’orologio in corridoio.

Guardai quell’uomo malato, con le spalle cadenti ma lo sguardo lucidissimo, e capii che da quel momento in poi non ero più solo “la nuora lasciata a casa”.

Ero l’unica testimone.
Ero l’unica alleata.

«Da domani» disse Vittorio, richiudendo la cartellina, «chiamiamo la mia avvocata. E iniziamo a mettere tutto nero su bianco.»

Annuii lentamente.
Dentro di me, qualcosa si era già messo in moto.

Il loro Natale perfetto in crociera era appena diventato l’inizio della fine.
Non solo per il loro conto in banca.
Per il loro modo di raccontarsi di essere “una famiglia.”

La mattina dopo, il campanello suonò poco dopo le nove.
Aprii con un misto di timore e speranza.

Sulla soglia c’era una donna sui sessanta, capelli corti argento, cappotto scuro, una borsa da lavoro in pelle in mano.

«Lei dev’essere Giada» disse, studiandomi con uno sguardo rapido ma non ostile. «Io sono l’avvocata di Vittorio, Patrizia Leone.»

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