Sono tornata per il pranzo di Natale e ho trovato mio marito sparito, il patrigno pronto a cambiare tutto

Ci sedemmo al tavolo della cucina. Vittorio, stanco ma lucidissimo, le porse la cartellina con il testamento vero e i fogli che avevamo visto la sera prima.

«È arrivato il momento di sistemare tutto» disse. «Non mi fido più di nessuno in questa casa, tranne che di lei.» Indicò me con un cenno.

Patrizia aprì i documenti, li sfogliò con attenzione, poi annuì. «Possiamo farlo» disse. «Ma servirà ordine. E prove.»

Mi guardò. «Lui mi ha parlato al telefono di lei ieri sera. Mi ha detto che ha dimestichezza con il computer, con i documenti.»

«Lavoro come grafica» spiegai. «Sono abituata a mettere insieme materiale, immagini, testi.»

«Perfetto» fece lei, tirando fuori un taccuino. «Ogni estratto conto che mostra prelievi sospetti, ogni visita medica saltata, ogni episodio di negligenza… dobbiamo scannerizzarli, ordinarli per data, numerarli. Quando questa famiglia contesterà il testamento — perché lo farà — noi avremo una storia chiara da raccontare.»

La parola “famiglia” mi pizzicò lo stomaco.
Non sembrava più la mia. Non dopo quella crociera.

Passai il resto della mattina a fare proprio quello: scannerizzare, rinominare file, creare cartelle sul vecchio portatile di Vittorio. Lui, seduto accanto, aggiungeva dettagli, date, piccoli particolari che solo chi vive in quella casa da anni può sapere.

A metà pomeriggio, Patrizia chiuse la cartellina con un respiro profondo. «Ho bisogno di un’ultima cosa» disse, guardando Vittorio negli occhi. «Lei è consapevole che queste decisioni taglieranno fuori Riccardo e sua madre dalla sua eredità?»

«Sono più che consapevole» rispose lui. «È l’unica cosa che mi fa respirare meglio.»

«Bene.»
Patrizia si alzò. «Domani torno con un collega notaio per le firme definitive. E chiederò a un medico di redigere una relazione sulla sua capacità mentale. Non avranno appigli.»

Prima di andare via, mi prese in disparte vicino alla porta. «Si prepari» mi disse a bassa voce. «Queste persone non accetteranno facilmente di essere escluse. Ma non è lei che sta facendo qualcosa di sbagliato. Lei sta solo mettendo in ordine ciò che altri hanno distrutto.»

Annuii, anche se in fondo mi sentivo ancora una intrusa nella vita di quell’uomo.


Il giorno seguente, comparve un furgone bianco senza scritte.
Ne scese un uomo robusto, sui cinquanta, con una barba curata e un sorriso un po’ ironico.

«Sono Giacomo» si presentò. «Fratello di Patrizia. Ho una piccola azienda di forniture sanitarie. Mi ha detto che c’è bisogno di… scenografia.»

Strizzò l’occhio a Vittorio, che annuì.

Nel giro di un’ora il lettino in camera sua sembrò davvero quello di un malato gravissimo curato a domicilio: bombola d’ossigeno, un’asta per flebo, qualche macchinario spento che però faceva la sua figura, scatole ordinate di medicinali. Tutto regolare, tutto fatturato, ma disposto con un certo effetto.

«La chiamano “teatro medico”» scherzò Giacomo mentre sistemava i tubi. «Io preferisco dire che stiamo mostrando al mondo quanto impegno dovrebbe metterci chi dice di occuparsi di un anziano.»

Con il permesso di Vittorio, scattai alcune foto: lui a letto, gli occhi stanchi, il volto magro, io accanto con un quaderno in mano, come una caregiver improvvisata che fa del suo meglio. Non c’era bisogno di esagerare troppo: la malattia aveva già fatto la sua parte.

«A chi mandiamo la prima?» chiese Vittorio, appoggiato ai cuscini.

«A Melissa» risposi senza pensarci. «È l’unica che ha scritto un messaggio di auguri direttamente a te, mentre gli altri postavano solo foto della crociera.»

Scrissi:

«Ciao Melissa, sono Giada. Vittorio ha avuto una notte pesante, febbre alta e molto dolore. Sto facendo il possibile. Ti mando una foto così vedi tu stessa. Ti terrò aggiornata.»

La risposta arrivò dopo pochi minuti.

«Povero zio… mi dispiace tanto. Grazie che ti stai occupando di lui. Tienimi informata.»

Vittorio sorrise amaramente. «Eccoli lì. Cominciano a capire che il “peso” potrebbe diventare una responsabilità anche per loro.»

Nel corso della giornata lasciai più volte messaggi vocali a Riccardo, con voce via via più tesa:

«Riccardo, sono io. Lo stato di Vittorio non è buono, il medico parla di peggioramento rapido. Richiamami, per favore.»

«Ciao, sono sempre Giada. Ho chiamato il medico di base, dice che bisogna pensare a cure palliative più serie. Vorrei parlarne con te. Chiamami.»

Ogni messaggio veniva registrato anche sul telefono di Vittorio, che prendeva nota di orari e contenuto.

Lui mi guardava come se stesse assistendo a uno spettacolo che conosceva già a memoria. «Non richiamerà» disse. «Ma non potrà dire di non essere stato avvisato.»


Il primo imprevisto positivo arrivò sotto forma di teglia fumante.
Alle sette di sera, il campanello suonò di nuovo.

Alla porta c’era una signora anziana, capelli raccolti, cappotto marrone e una teglia di pasta al forno tra le mani.

«Buonasera» disse, un po’ in imbarazzo. «Sono la signora Bianchi, abito qui di fronte. Ho visto che la macchina non è di Riccardo… ho pensato che forse aveva bisogno di una mano, con Vittorio.»

Le feci accomodare la teglia in cucina e la invitai a sedersi. In pochi minuti, con un caffè davanti, la signora Bianchi iniziò a parlare come se avesse trattenuto quelle parole per anni.

«Sa, noi vicini abbiamo visto tante cose» sospirò. «Vittorio sempre più magro, sempre più solo. Riccardo di corsa, sempre con il telefono in mano… e sua madre elegante, usciva con le valigie e tornava con sacchetti di negozi costosi.»

Abbassò la voce. «L’anno scorso, a novembre, è stato mio marito ad accompagnare Vittorio al pronto soccorso. È caduto in giardino, urlava dal dolore. Abbiamo suonato, telefonato… niente. Riccardo non ha aperto, era davanti alla televisione. Lo vedevamo dalla finestra.»

Mi sentii stringere lo stomaco. «Non lo sapevo» sussurrai.

«Non è colpa sua, cara» disse la signora. «Lei almeno è qui. Lui, quando viene, sta dieci minuti, controlla le pillole con aria annoiata e se ne va. L’ho detto più volte a Elena che così non si fa con un marito, ma lei… cambiava discorso.»

Quando se ne andò, promettendo di tornare nei giorni seguenti, dissi solo: «Grazie. Per il cibo. E per avermi raccontato tutto.»

«Se serve testimoniare, io ci sono» rispose lei, seria. «Vittorio è una brava persona. Non merita questo.»

Non era la sola. Nei due giorni successivi passarono altri vicini: una coppia giovane che aveva aiutato Vittorio a portare su la spesa, un uomo di mezza età che lo aveva trovato seduto su una panchina, tremante, mentre aspettava un taxi che non arrivava. Ognuno con un piccolo pezzo di puzzle.

Ogni volta io annotavo nomi, date, episodi.
La storia della “famiglia premurosa” cominciava a mostrare tutte le crepe.


Sabato mattina, Patrizia tornò con un notaio, il signor Tommasi. Vittorio, benché stanco, volle sedersi al tavolo del soggiorno, in camicia e maglione, ben pettinato.

«Voglio che mi vedano ancora come un uomo, non solo come un malato» disse piano.

Leggemmo insieme, riga per riga, il nuovo testamento.
La casa e gli altri beni della piccola società sarebbero andati a un fondo da lui voluto, di cui io sarei stata amministratrice: una parte destinata a me, una parte a due associazioni che si occupano di anziani maltrattati e persone fragili. Riccardo ed Elena venivano esplicitamente esclusi, con una motivazione chiara e secca: «per abbandono affettivo e negligenza continuata».

Il notaio lo guardò negli occhi. «Signor Vittorio, lei è pienamente consapevole di quello che sta firmando?»

«Più consapevole di tante altre decisioni prese in vita mia» rispose. «E sono mentalmente presente, come può vedere.»

Nel pomeriggio, andammo in banca con un appuntamento fissato da Patrizia. Il direttore, un uomo sui sessant’anni con gli occhiali sottili, uscì dal suo ufficio per salutare Vittorio come un vecchio amico.

«Da quanto tempo, dottor Ferri» disse stringendogli la mano. «Come sta?»

«In scadenza» rispose Vittorio con un sorriso storto. «Ma lucido abbastanza per sistemare i conti.»

Nell’ufficio, a porta chiusa, il direttore confermò le ultime firme per il trasferimento dei beni ai nuovi fondi. Quando tutto fu pronto, si appoggiò allo schienale e sbottò quasi senza volerlo:

«Sa che suo figliastro è venuto qui la settimana scorsa? Voleva informazioni sui suoi conti. Ho dovuto ricordargli che senza delega non posso dirgli niente.»

Sorrise amaramente. «Mi ha fatto venire in mente quando venne anni fa ad incassare l’assegno del regalo di laurea. Ricorda? Si lamentò perfino della cifra, dicendo che non bastava per la macchina che voleva.»

Un altro dettaglio. Un’altra tessera nella lunga fila.

Quando tornammo a casa, Vittorio era esausto, ma i suoi occhi brillavano di una strana pace. «Adesso» disse, sedendosi sulla poltrona a dondolo, «se anche domani il cuore decide di piantarmi lì, almeno so che non ho lasciato tutto in mano a chi aspettava solo la mia fine.»


La vera fine, però, arrivò più in fretta di quanto pensassimo.

La domenica mattina lo trovai diverso. Il colore intorno alle labbra era più bluastro, le mani più fredde, la voce un soffio.

«Non devi più fingere con me» gli dissi mentre gli aggiustavo il cuscino. «Oggi non stai bene sul serio.»

Lui fece un mezzo sorriso. «Dopo tutto il teatro, ecco la scena vera.»

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